La lingua della TV: dalla quantità alla qualità

Dell'Auditel si potrebbe dire, parafrasando la celebre frase di Churchill, che sia la peggiore forma di indagine quantitativa sulla televisione, escluse tutte le altre. Non sono certa che ci siamo lasciati alle spalle il periodo in cui prendersela con lo share sembrava diventato uno sport nazionale; ma mi sembra che non altrettanto si sia fatto con l'abitudine di utilizzarlo male, trasformando in un dato piatto e unidimensionale quella che potrebbe essere un'informazione articolata sul pubblico televisivo.

Eppure, basterebbe scavare un po' nei numeri per vedersi restituire un ritratto più complesso di tante semplificazioni: come ha fatto Massimo Bernardini (il giornalista autore e volto di "Il grande Talk" su Sat2000 prima e di "TVTalk" su Rai Tre dopo), intervenendo al seminario di riflessione su "Lingua e TV – linguaggi, cosmologie e mondi rappresentati", organizzato dal Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza di Roma. A Bernardini è bastato scorrere i dati d'ascolto elaborati dalla Geca di Massimo Scaglioni sulla serata di confronto tra "Il commissario Montalbano" e "Il Grande Fratello", per smentire i titoli di qualche quotidiano che aveva contrapposto gli spettatori delle due trasmissioni come "due Italie" (più o meno coincidenti con gli elettori della maggioranza e quelli dell'opposizione: peccato che due non fossero, se con tutta evidenza i numeri mostrano che appena terminate le avventure del commissario i suoi fedelissimi si sono riversati sui ragazzi della casa). 

Questo non significa tout court che leggere più numeri, o leggerli meglio, possa bastare a decifrare tutti i misteri dell'audience; perché sempre di numeri si tratta (e di numeri rilevati con le modalità già abbondantemente messe in questione da almeno una decina d'anni da Roberta Gisotti), utili certamente a raggiungere un certo ordine di obiettivi (esaurientemente illustrati, ad esempio, dal volume di Carlo Nardello e Carlo Alberto Pratesi sul marketing televisivo), ma non abbastanza ampio da includere un'interpretazione generale del rapporto tra televisione e telespettatori, tanto meno da autorizzare a trarre conclusioni (specialmente se "apocalittiche") sugli effetti sortiti dalla prima sui secondi. 

Se scavando nei numeri basta poco ad ottenendo un ritratto degli spettatori più fedele e variegato di quanto possa essere la semplice e manichea distinzione tra "buoni" e "cattivi", immaginiamo cosa succederebbe se si alzasse lo sguardo oltre i numeri. E oltre i numeri ci sono le persone: ci sono i loro comportamenti, il contesto in cui agiscono e interpretano, i loro usi e consumi, persino la loro routine. Guardare a queste persone, al loro modo di vivere e utilizzare la televisione, alle loro iniziative e strategie proattive di fronte a un protagonista indiscusso – ma non unico, né necessariamente subìto – delle loro vite diventa indispensabile, per una riflessione sul linguaggio della TV che voglia oltrepassare la mera quantificazione.

Distogliere lo sguardo dalla quantità per passare alla qualità non significa sposare un facile slogan antitelevisivo, ma proporre un metodo di ricerca per guardare in profondità dentro la TV. Fare etnografia dei media potrebbe aiutare a svelare una fisionomia inattesa delle persone reali, umane, che stanno dall'altra parte dello schermo; e forse offrire una possibilità in più a quell'incontro tra industria televisiva e accademia (auspicato, tra i protagonisti del seminario, da Pietro Grignani, dello staff della vice-DG Rai) che così bene farebbe a entrambe.