Cosa fanno i media alle persone – anzi, con i dati?

Nei media studies, la transizione dalla cosiddetta teoria “ipodermica” alla teoria “degli usi e delle gratificazioni”, risalente agli anni Quaranta del Novecento, viene solitamente riassunta con il passaggio da “cosa i media fanno alle persone” a “cosa le persone fanno con i media”. Si tratta di uno sviluppo che inaugura  un approccio critico più aperto al contributo dell’audience, non più considerata un semplice terreno in cui “inoculare” opinioni, preferenze di consumo e persino convinzioni politiche, ma osservata e analizzata come soggetto attivo nell’interazione mediale. Questo genere di approccio ha conosciuto alterne fortune: nell’epoca del presunto strapotere televisivo sembrava dover essere accantonato, a favore di nuove prospettive di stampo “apocalittico” – l'”agenda-setting” e la “spirale del silenzio”, per citare le principali – che ribadivano l’influenza (non più di massa e immediata, ma selettiva e indiretta) esercitata dai mezzi di comunicazione, non priva di risvolti politici anche inquietanti.

L’avvento della Rete come infrastruttura, e più in generale come modello di comunicazione caratterizzato dalla intercorrelazione dei nodi (con la diffusione multidirezionale dei messaggi), e la moltiplicazione dei dispositivi di ricezione e trasmissione dei messaggi stessi – sempre più veloci, sempre più personali, sempre più pervasivi – hanno riaperto la questione. Internet ha spinto i media studies a tornare sui propri passi, a ipotizzare che la convergenza potesse essere realizzata non solo come incontro tra reti e contenuti, ma tra l’alto e il basso, tra il potere e i suoi sottoposti, tra istanze corporate grassroots. La revisione non poteva non coinvolgere la TV: o meglio, quella che continuiamo a chiamare TV attraverso tutte le sue (re)incarnazioni, dalla IPTV alla web TV, dalla mobile TV alla OTT TV. L’incontro tra il piccolo schermo e i social media ha fatto pensare che il rapporto di forza tra emittente e spettatore potesse essere definitivamente sovvertito, con la partecipazione alle trasmissioni, l’interazione con i format o addirittura l’appropriazione e riscrittura delle serie TV nella fattispecie della fan fiction.

Il web 2.0 tuttavia ha presto rivelato il suo volto meno benevolo, meno familiare a chi si sarebbe aspettato che non potesse derivarne altro che libertà, autodeterminazione, e finalmente potere all’utente (come se il vecchio spettatore televisivo non fosse stato altro che una povera vittima). Da ogni libertà deriva inevitabilmente una responsabilità: e la libertà di esprimersi, di dire la propria, di raccontare la propria vita e le proprie opinioni non fa eccezione. Così, ogni informazione volenterosamente diffusa in Rete dagli utenti, allo scopo di comunicare, di conoscere o di interagire, direttamente o indirettamente inerente le loro vite, rappresenta una traccia di questa stessa vita, come ha spiegato Luca Tomassini in “Vite connesse”. E una volta impressa sul terreno di Internet si trasforma in materiale per chi voglia e possa raccoglierla: un dato. Inteso anche proprio come participio passato: qualcosa di nostro, che abbiamo conferito ad altri.

Il modello di business principale della Rete, oggi, è rappresentato dall’erogazione di servizi in cambio del conferimento di dati. Proprio la Tv avrebbe dovuto insegnarcelo: quando un prodotto è gratis, il prodotto sei tu. Che ne fossero o meno consapevoli, che avessero acconsentito  in tutto o in parte all’utilizzo di questi dati, gli utenti della Rete hanno lasciato che i gestori dei servizi, in massima parte gratuiti, su cui si fonda il web 2.0 – non solo e non tanto quelli infrastrutturali, di connessione, quanto i navigatori, i gestori di posta elettronica, i motori di ricerca, i social media, i servizi di messaggistica istantanea – potessero raccoglierli e avvalersene. Gli scopi, come nel caso della TV, sono stati in principio eminentemente commerciali: con la differenza che qui il potenziale acquirente è stato individuato e descritto nel dettaglio prima di fargli arrivare il messaggio promozionale. Insomma: non ti chiedo un pagamento, perché a pagarmi sarà l’inserzionista che ti presenta, sotto forma di advertising, il prodotto o il servizio su misura per te, in base al tuo profilo dettagliatamente descritto sulla base dei dati che mi hai lasciato raccogliere.

Come insegnava già nel 2008 l’elezione di Obama, sarebbe stato ingenuo pensare che ci si fermasse qui. Il caso di Cambridge Analytica non è che l’esempio più recente della potenza di fuoco che chi lavora con i dati diffusi in Rete può mettere in campo, al di là dell’effettiva influenza – ancora tutta da dimostrare – sulle scelte politiche. E per quanto le informazioni degli utenti in questo caso siano state raccolte fraudolentemente, illudendoli che servissero ad altri scopi, non è possibile isolare il caso escludendolo dalla più generale riflessione su media e audience. Una riflessione che va a questo punto ulteriormente rivisitata, alla luce della dinamica dei big data: non sono più i media che “fanno” cose alle persone; ma neppure le persone che “fanno” cose con i media. La dissimmetria ipotizzata dalla teoria ipodermica, poi ridimensionata dalla teoria degli effetti limitati, sembra tornata ancora una volta attuale nella forma della sproporzione delle forze tra i soggetti che detengono la capacità di raccolta e elaborazione dei dati degli utenti, e gli utenti stessi: potremmo battezzarlo data divide. Ma il reale potere di determinazione delle scelte e dei comportamenti degli utenti rappresenta ancora un punto di domanda, come ha ben sottolineato il New York Times: nel caso di Cambridge Analytica, il capo di imputazione più appropriato  per la società incriminata e per il social network che le ha aperto le porte è la truffa, non la persuasione occulta.

Il dubbio sulla fondatezza degli allarmi contro lo strapotere dell’algoritmo, in difesa dei forzati del digital labor, è quanto mai legittimo, nell’era della “costante attenzione parziale” (copyright Alberto Contri): in cui i vari media, Internet non esclusa, si contendono affannosamente un utente sempre meno disponibile a seguirli, sempre più iperattivo ma proprio per questo sempre meno interessato a fermarsi sui loro messaggi. Persino l’esito delle elezioni nostrane, assai più che dall’oscuro potere del web e dei vari “blog”, può ben essere spiegato da fattori contingenti (alcuni dei quali analizzati dettagliatamente da questo articolo). Esattamente come ai tempi della cara, vecchia TV – quando i presunti  couch potatoes della cui preoccupante passività scrivevano fior di ricercatori usavano in realtà la TV come rumore di sottofondo, per distrarsi e magari nel frattempo stirare, cucinare, lavorare o badare ai figli -, anche oggi una ricerca più approfondita sugli utenti della Rete (e per ricerca intendo una osservazione etnografica partecipante, non l’ennesima sentiment analysis) potrebbe riservarci più di una sorpresa.  Ma temo che, esattamente come allora, sia troppo forte la tentazione di abbandonarsi alle generalizzazioni e ai conseguenti alti lai per porsi seriamente la domanda se quello che i media fanno alle persone, anzi, con i loro dati, abbia poi davvero qualche importanza.