Abbiamo bisogno di un nuovo illuminismo

L’illuminismo, secondo la definizione di Kant, è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Nel suo pamphlet del 1784, Kant definisce la minorità come “l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”: un’eterodirezione delle proprie facoltà che non viene subìta, ma scelta per “mancanza di decisione e del coraggio”, per pigrizia o per viltà. L’esortazione  con la quale Kant riassume lo spirito dell’illuminismo – “sapere aude! abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza” – è dunque anzitutto un invito ad abbandonare deliberatamente la comodità e la facilità della condizione di minorenni – privi di autonomia e affidati a tutori per qualsiasi decisione o valutazione – per diventare finalmente adulti.

Si potrebbe dire che sia lo stato di minorità il precipitato ultimo degli allarmi risuonati nell’ultimo scorcio di secolo a proposito dei mass media: i mezzi di comunicazione di massa sarebbero i principali responsabili, le cause efficienti dell’istupidimento, della prevaricazione, della credulità, insomma del degrado intellettuale dilagante. Colpevole di tanto è stata considerata soprattutto la televisione, la “cattiva maestra”contro la quale si è scagliato tra gli altri Karl Popper – per rimanere tra filosofi. La stigmatizzazione di Popper, rispetto ad altre pure autorevoli, provenienti da tradizioni di pensiero diverse, rivela un punto di contatto con il pamphlet kantiano, perché riconosce il ruolo educativo della TV nel momento stesso in cui la accusa di esercitarlo a detrimento dei suoi allievi, bombardati da un potere incommensurabile e violento; analogamente, Kant puntava il dito contro i “benevoli” tutori che, dopo aver ridotto gli uomini al rango di animali domestici, impediscono loro qualsiasi emancipazione, sventolando i temibili pericoli ai quali andrebbero altrimenti incontro.

Più di recente, il reato di induzione nello stato di minorità è stato contestato alla Rete, tanto più deprecata oggi quanto più invocata, ieri, come la salvatrice dalle trame malefiche del piccolo schermo, come l’atteso antidoto alla famigerata passività dello spettatore, a base di partecipazione, condivisione, creatività. Le critiche più aspre, quindi, provengono proprio da pionieri del web come Jaron Lanier, o nerd come Jarett Kobek (una bella recensione del suo romanzo “Odio Internet” è quella di Cristina Marconi); alcuni, com’è tipico, si scagliano contro Internet per auspicare il ritorno a una sua “purezza” originaria (come il compiano Fabio Metitieri), altri – come Evgeny Morozov – puntano a demistificare l’ideologia del Web foriero di democrazia in sé. Un capitolo a parte è rappresentato dagli allarmi che riguardano i più giovani e il loro utilizzo della Rete, a rischio di abusi, violenze e dipendenze: in questo caso si fanno risentire accenti già noti dai tempi di Popper, o prima ancora, solo traslati dalla TV al web.  Ipnosi, assuefazione, alienazione, smarrimento della dimensione sociale, e persino follia omicida: i tratti caratteristici di patologie già emerse e familiari alla letteratura – assolutamente reali, e perniciose – diventano ora i significanti associati a Internet, che veste a sua volta i panni della “cattiva maestra”. Persino le accuse mosse all’informazione deviata sono state da ultimo dirottate sulla Rete, protagonista delle “fake news” eredi (mutatis mutandis, ma sempre in linea di discendenza diretta) delle notizie false e tendenziose attribuite qualche tempo fa agli anchorman di certe reti all news (o, dalle nostre parti, di certi telegiornali).

Perché abbiamo bisogno di un nuovo illuminismo? Il punto è quello stesso così bene circoscritto da Kant all’inizio del pamphlet: lo stato di minorità è a noi stessi imputabile, e non ad altri. Sempre e comunque, l’incapacità di servirsi del proprio stesso intelletto è da ascrivere all’uomo, alla sua mancanza di coraggio e di decisione, alla sua pigrizia, alla sua viltà. Non i mass media, non la televisione, non Internet sono i colpevoli della nostra eterodirezione: essi sono semmai soltanto i “benevoli” tutori ai quali noi stessi abbiamo delegato le nostre facoltà intellettive. A ben guardare, tuttavia, i mezzi di comunicazione non corrispondono pienamente al ritratto kantiano dei tutori, che si sono fatti volentieri carico della nostra direzione – ma pur sempre a seguito della nostra abdicazione a servirci della nostra intelligenza. Chi somiglia di più a questa fisionomia è invece proprio chi, ieri come oggi, agita lo spettro dei media: chi non ci ritiene grandi abbastanza da badare a noi stessi di fronte a uno schermo, piccolo o grande che sia, chi non crede che sappiamo adoperarci in un banale esercizio di controllo delle fonti, chi ci prospetta i grandi pericoli che attraverso l’etere, le reti e i dispositivi ci minacciano, le cadute rovinose che ci attendono se tentassimo di camminare da soli – senza insegnarci che, come osserva Kant, è proprio a prezzo di qualche caduta che si impara a camminare.

Il tentativo di mantenere l’uomo nello stato di minorità non si arresta alla prospettiva sui media, ma si perpetua ogni volta che alla fiducia, all’empowerment, alla cultura – intesa come coltivazione di una pianta che deve, tuttavia, crescere sul proprio stelo e con le proprie fibre – , si sostituisce la propaganda sul terribile rischio insito nella libertà. Vale per la scelta del telespettatore, per l’esperienza del navigatore, ma vale anche per l’autonomia dello smartworker, e in ultima istanza per il voto dell’elettore. In tutti questi casi, l’unico rimedio alle possibili cadute resta l’educazione alla libertà, l’insegnamento che a ogni libertà è sempre indistricabilmente connessa una responsabilità; insegnamento che, se viene da buoni maestri, rappresenta in pari tempo un’esortazione a provare, a esercitare la propria libertà, a servirsi della propria intelligenza, e a farlo da adulti, capaci di assumersi le relative responsabilità e di sopportare anche le eventuali cadute. “Sapere aude”: non ci servono tutori, ma buoni maestri che ci spingano a uscire dallo stato di minorità, imputabile a nessun altro che a noi stessi.