E’ davvero necessaria un’Associazione dei Consumatori TV?

(segue dal post precedente) Per principio, personalmente diffido delle associazioni consumatori
di qualunque genere e ordine. Mi sembrano di per sé un’avocazione della
responsabilità del cliente, il quale – quando effettua un acquisto,
consuma un prodotto o utilizza un servizio, non deve secondo me
ritenersi esonerato dall’esercizio del raziocinio e dello spirito
critico; virtù irrinunciabili, che possono portarlo in prima istanza a
valutare l’effettivo valore di tali beni, e in secondo luogo a far
valere le proprie ragioni, opportunamente supportate da un bagaglio di
conoscenze che la consapevolezza dei propri diritti dovrebbe spingere
ciascuno di noi a procurarsi. Delegare tale consapevolezza a terzi,
specie se agguerriti per ragioni che spesso esondano il mero ambito del
disservizio o del malfunzionamento in questione, mi pare denunci uno
stato di minorità, nel senso kantiano del termine.

Gli unici casi in cui secondo me è utile e opportuno affidarsi alle
associazioni dei consumatori sono quelli in cui, spesso per malinteso
ruolo dello stato o dell’interesse pubblico, esiste un monopolio di
fatto, o  un cartello insormontabile malgrado i tentativi di
liberalizzazione (tali sono, a mio modo di vedere, i servizi di
trasporto ferroviario e quelli bancari). L’ambito della televisione, al
contrario, non rientra in nessuno di questi due casi. Qualcuno potrà
obiettare, specialmente dopo gli ultimi discussi sviluppi del caso
Rai-Mediaset, che siamo invece di fronte a un vero e proprio monopolio,
che farebbe capo alla gestione del solito noto. Più che fare politica,
in questa sede mi interessa però interrogarmi sulla effettiva
"necessità" cui il nuovo organismo fa cenno; in altre parole, chiedermi
contro quale tipo di disagio o disservizio una simile associazione
dovrebbe poter agire, che non sia già ampiamente contrastabile con
l’uso del più amato e odiato tra gli utensili domestici, il
telecomando, o nei casi più radicali con il pulsante on/off dell’apparecchio radiotelevisivo.

Facendo un passo indietro, vorrei tornare sul significato della "televisione" dalla quale l’associazione ritiene di dover difendere i consumatori. Questo stesso fatto, da solo, rivela una precisa concezione della fruizione televisiva: nella quale lo spettatore per lo più subisce ciò che il piccolo schermo gli propina. Il suo ruolo passivo, di pura ricezione del messaggio, presuppone dall’altro lato un medium attivo, anzi iperattivo, che provvede a tutto senza richiedere interazioni né diffondere stimoli. Sembra il ritratto della televisione generalista degli anni Ottanta: quando il palinsesto scandito dai programmi e d esso subordinato si trasforma in un flusso ininterrotto, alle cui esigenze è sacrificata la rilevanza della singola trasmissione. Una simile TV non esiste più da almeno vent’anni: non solo perché il palinsesto, nel frattempo, si è ancora modificato, o perché le trasmissioni hanno da tempo cominciato a richiedere al pubblico una partecipazione fattiva, con l’ausilio di strumenti di comunicazione mutuati dagli altri media. No, il punto è che la stessa televisione generalista è in gran ritirata, assediata dalla multiforme pletora delle evoluzioni di questo mezzo, già a suo tempo battezzate "post-televisione"

(segue)

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