Il problema di come misurare la TV, di cosa e perché misurare, di come valutare le performances dei programmi in termini quantitativi e qualitativi, è uno degli assilli ricorrenti per gli operatori del settore, i pubblicitari, i regolatori e non da ultimo i politici; e questo non soltanto, come sembrerebbe dedurre da certi allarmati annunci, nel nostro paese, ma quasi dappertutto dove esiste un piccolo schermo. A peggiorare la situazione ci si è messa la disseminazione digitale, la pluralità tecnologica, insomma la moltiplicazione dei devices attraverso i quali i contenuti televisivi sono fruibili.
Negli Stati Uniti, l'allarme sugli strumenti e i criteri di misurazione televisiva è ormai altissimo, vista la componente sempre più elevata di audience proveniente dai canali online. Se in principio i broadcasters lamentavano la scarsità di dati, come afferma Alan Wurtzel, che dirige la ricerca e sviluppo di NBC Universal, ora fanno fatica ad orientarsi nella selva di numeri a loro disposizione. Questo perché il pubblico digitale è cresciuto in progressione geometrica nell'ultimo anno e mezzo, e le metriche non sono riuscite a tenerne il passo.
E se la maggior parte degli operatori continua a fare affidamento su Nielsen, storico brand leader del settore, questo non impedisce a televisioni, inserzionisti e centri di pianificazione media di reagire, associandosi in gruppo per migliorare la qualità della misurazione: sono sinora 15 i membri della Coalition for
Innovative Media Measurement (CIMM), uniti per fronteggiare l'avanzata di set-top-boxes, PC, sistemi di video on demand e via discorrendo. E così, mentre il nostro fronte nazionale resta amabilmente distratto da amenità come il Qualitel, altrove non salta neppure in mente di discutere la imprescindibilità dei dati quantitativi, e si lavora invece alacremente per migliorarne la rispondenza alla realtà.