Dal terzo Fiction Day, organizzato dal dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza di Roma, e dedicato alla TV innovativa (dopo la giornata dello scorso 19 ottobre, incentrata su quella tradizionale), ci si sarebbe potuto attendere un'esibizione dicheerleaders dell'innovazione, come l'avrebbe definita la studiosa inglese di audience Sonia Livingstone avrebbe definito. Al contrario, lo spirito critico e scientifico ha avuto il sopravvento su quello meramente laudatorio del temporis acti.
Da un lato, non sono mancati corposi flashback, veri e propri tuffi nella televisione del passato (in accordo con lo spirito della citazione iniziale di Milly Buonanno, che ha chiamato in causa Pascoli per affermare che il "qualcosa di nuovo" molto spesso è "anzi, d'antico"). Lo stesso meccanismo del fandom, con la sua partecipazione alle serie TV all'interno e al di fuori del piccolo schermo, non è esclusivo dell'epoca della TV "connessa" (lo dimostrano casi quali quello di Star Trek). La televisione convergente, in questo senso, sembra aver ampliato, non inventato, le dinamiche di estensione del testo narrativo.
D'altro canto, non sono mancate prese di distanza da certi semplicistici entusiasmi, come quelli (veri o fittizi) che accompagnano il lancio di ogni nuova fiction (e più in generale di ogni nuova trasmissione televisiva), già battezzata "di culto" prima ancora di approdare sui teleschermi. Un titolo spesso usurpato, come hanno dimostrato casi anche recenti di delusione degli spettatori rispetto alle promesse, che hanno portato (non solo nel nostro paese) alla repentina revisione di palinsesti.
Anche per le narrazioni seriali vale dunque la cautela generale da adottare verso la "retorica del nuovo". Che si tratti di nuove tecnologie o di nuove sceneggiature, l'età recente non garantisce di per sé la capacità di lasciare una traccia significativa non solo nella storia della TV, ma anche e soprattutto nelle storie personali dell'audience.