Con l’arrivo degli ultimi politici, portavoce, portaborse,
comprimari e affini l’arca di Twitter ha davvero imbarcato tutti; a tutti
promettendo, come quella di Noè, la salvezza, o almeno lo scampo dall’oblìo.
Alla rincorsa alle apparizioni in TV e poi all’apertura di siti web, blog e
pagine su FB si è aggiunta infine quella al cinguettìo, all’insegna di un
presenzialismo che rivela a tratti una vena di opportunismo.
Ma la ricerca
di un pulpito sempre più ampio e più elevato per diffondere il verbo avanza a
discapito del verbo stesso: travolto nel passaggio dai sermoni catodici ai 140
caratteri di Twitter, dalle interviste sui quotidiani alle pagine Facebook,
dagli spot radiofonici ai post sui blog. E così i codici saltano, i lessici si
snaturano, gli stili si confondono, e lasciano il posto ad emoticons o esclamativi inopportuni, a noiosi sproloqui, violente
invettive, o pause fin troppo meditate. Per restare a Twitter, le riflessioni
maturate all’indomani di alcuni esordi “eccellenti” concordavano sul fatto che,
anche volendo salvare il metodo o premiare il tentativo, ci fosse molto da
rivedere nel merito.
Il fatto è
che, impegnati come siamo ad ossequiare l’imperativo di comunicare sempre,
dovunque e comunque, talvolta tralasciamo di assicurarci che la comunicazione
funzioni: vale a dire, che sia misurata sui destinatari, sui canali, sugli
strumenti a disposizione. Per quanto impopolare suoni dirlo, non tutti possono
comunicare con la stessa efficacia e qualità sui vari mezzi: assumere il
contrario significa cadere in un equivoco, piuttosto diffuso nella nostra epoca
di multicanalità indiscriminata, che ci ha abituati a volere tutto,
dappertutto.
Eppure, il
mantra dell’”anywhere, at anytime” è stato smentito proprio nel momento in cui
sembrava trionfare: il medesimo contenuto, trasferito da una rete a un’altra,
da un dispositivo a un altro, da un’interfaccia a un’altra, ha dovuto
adattarsi, trasformarsi, ripensare se stesso in profondità, pena
l’incomprensibilità, o peggio ancora l’irrilevanza. Non a caso si parla di
narrazioni trans-mediali: contenuti proteiformi, mai uguali a se stessi, che
non si limitano a riprodursi immutati attraverso i tanti canali, ma si
sviluppano in dimensioni e direzioni diverse a seconda del tempo, del luogo e
del modo della comunicazione.
Se non si è
pronti a costruire qualcosa di così grande, complesso, potente, tanto vale
(auto)limitarsi: scegliere consapevolmente il proprio habitat mediale e
occuparlo al meglio, presidiando gli altri con una sorta di bandierina
segnaletica. Lo sanno bene alcuni dei candidati più smaliziati alle prossime
elezioni politiche, che hanno eletto a loro luogo naturale chi la TV, chi i
blog, chi la radio, chi i social network, e sugli altri media si affidano a
comparse sporadiche, o al monitoraggio di uno staff. Una scelta in alcuni casi
rivendicata con toni battaglieri e giustificazioni paraideologiche, in altri
lasciata scorrere sotto traccia, ma comunque ben percepibile, anche nei casi di
apparente “ubiquità” (soprattutto per alcuni di loro).
Ogni messaggio
ha il suo medium: e se è vero che la fascinazione del messaggio è direttamente
proporzionale alla sua capacità di attraversare i vari media, è altrettanto
vero che la traversata non è indenne da pericoli. Meglio allora rimandare di
propria sponte la visita allo zoo comunale, per non sentirsi rispondere come
nella canzone di Jannacci: vengo anch'io? No, tu no.