Calmo, concreto, coinciso: Barry Wellman presenta il libro “Networked“, scritto insieme a Lee Rainie – e tradotto ora in italiano, a cura di Alberto Marinelli e Francesca Comunello – armato di una sorta di “force tranquille”, tutto teso a rassicurare gli astanti: no media panic, non bisogna avere paura dei media, tanto meno dei social networks. Non bisogna credere alle sirene di quanti, di tanto in tanto, si abbandonano all’allarmismo: specialmente tra i sociologi.
Gli esempi citati spaziano da Ferdinand Tönnies a Sherry Turkle. Alla fine della sua presentazione, Wellman oppone la foto di Turkle, con il suo “alone” che sfida e smentisce il “together”, a quella di una ragazza fotografata, in un caffè, con il suo MacBook, i suoi auricolari, il suo cellulare:: “connected”. Come dire, il timore dell’isolamento mediatico genera di per se stesso solitudine. In realtà, afferma Wellman, non c’è alcun isolamento: c’è semplicemente un’appartenenza diversa, plurima, che per ciascuno individuo riguarda reti diverse, di volta in volta acquisite , suscettibili di variazione, piuttosto che una sola rete “naturale”, originaria e permanente.
Non è la tecnologia ad aver determinato questo mutamento: la tecnologia non ha cambiato le cose, perché il cambio era già nell’aria. Sono i rapporti sociali, semmai, ad aver determinato l’indirizzo dei mutamenti: è questo forse il tratto più interessante del pensiero di Wellman, che rifiuta di pensare à la Turkle i social network come una “reificazione” dell’umano. Nulla di reificato, tutto di umano, nelle nuove forme delle relazioni sociali.
Resta il dubbio: cosa transita attraverso queste reti? Quali informazioni – meglio che “dati” – scambiano gli uni con gli altri i “nodi” della rete, ormai coincidenti con i singoli individui? Hanno un contenuto originale, oppure la loro condivisione è una semplice ripetizione, una circolazione sterile di un mashup che non va oltre il mainstream, come temeva Jaron Lanier? Wellman è ottimista al riguardo, confida nelle reti locali, radicate nel territorio e nella storia, portatrici di una specificità feconda. Basterà questa confidenza nelle local roots a scongiurare la stagnazione delle idee, lo stimolo delle creatività, l’emergenza dell’inaudito nelle reti online che congiungono gli individui? C’è da sperare che abbia torto chi individua nell’emulazione e nel conformismo, che generano mera ripetizione, la caratteristica fondamentale delle reti sociali. Ma se Wellman e Rainie hanno visto giusto, il problema in quel caso non sarebbe comunque la tecnologia: ancora una volta, sarebbe l’uomo.