Chissà se i Google Glass sono davvero finiti con l’anno scorso, quando Reuters ha svelato che la commercializzazione del gadget di Mountain View è rimandata a data da destinarsi. Il motivo principale per cui l’avveniristico dispositivo non ha “sfondato” sembra essere stato il prezzo: troppi 1500 dollari, come ha scritto John Abell, per qualcosa che nel migliore dei casi suscita curiosità e nel peggiore dubbi sull’utilizzo che se ne possa mai fare. Al di là del costo, tuttavia, uno degli ostacoli alla diffusione dei Glass è stato di natura relazionale: chi li ha indossati ha dovuto affrontare un disagio tangibile da parte degli altri, sfociato in qualche caso in vere e proprie aggressioni per salvaguardare la propria privacy.
Ma c’è un aspetto potenzialmente ancora più inquietante del mondo visto attraverso i “glassholes”, come li chiamano ormai i detrattori. Se si indossano un paio di occhiali in grado, al limite, di fornirci in ogni momento informazioni dettagliate su ogni dettaglio della realtà circostante, potrebbe non esserci più bisogno di affidarle alla propria memoria. Perché ricordare nomi, date, strade, persino volti e suoni, quando abbiamo la possibilità di richiamarli sempre e dovunque davanti ai nostri occhi? L’obiezione non è nuova: come ha mostrato Walter Ong in “Oralità e scrittura”, si tratta della stessa critica mossa alla scrittura, potenziale distruttrice della memoria, da parte del filosofo greco Platone, la stessa che all’inizio dell’era informatica è riecheggiata contro i personal computer. Ma cosa accade quando si passa non solo dall’analogico al digitale, ma dal digitale al connesso? Che succede quando la possibilità di delegare immediatamente a una memoria esterna tutto quello che conosciamo (e ri-conosciamo) si accompagna con l’altrettanto immediata possibilità di recuperare questa conoscenza tramite i supporti informatici? Come cambiano allora il sapere, l’apprendimento, lo stesso insegnamento? E quali abilità sono richieste per affrontare questo cambiamento?
Nell’epoca di Google, sapere significa saper cercare: vale a dire, utilizzare le chiavi migliori e i mezzi più performanti per richiamare la conoscenza disponibile. La stessa nozione di conoscenza ha bisogno di essere rivisitata alla luce della pratica della condivisione, che va di pari passo con la connessione: la conoscenza non è tale perché acquisita e trattenuta in sé, ma perché richiamata efficacemente e velocemente dal bacino delle conoscenze collettive, depositate nella memoria comune della Rete, che progressivamente convoglia in sé quelle individuali. Ma la memoria è la base dell’identità: quella individuale, prima ancora di quella comunitaria. La definizione di questa identità potrebbe a sua volta trasformarsi: diventando qualcosa di dinamico e processuale, fondato più sulle capacità – di connessione, di elaborazione, di valutazione – che sulle informazioni. Uno scenario che può spaventare, ma anche affascinare, e del quale sarà comunque interessante valutare tutte le implicazioni. Per il momento, i Google Glass sembrano dover finire nel dimenticatoio: un bel paradosso, per uno strumento che prometteva di cambiare la nostra memoria.
(Pubblicato in origine sul Corriere Comunicazioni)