Qualche spunto dalla presentazione con la quale sono intervenuta all’edizione 2015 di SMX Milan, del 12 e 13 novembre scorsi (PS: slides a disposizione sul sito a breve). Si parla di video virali, o più precisamente di viral video advertising: di quell’oggetto multimediale bello e impossibile che in qualche minuto (un paio, più o meno) dovrebbe divertire, emozionare, influenzare e persuadere chi l’ha già visto a condividerlo con altri.
Anzitutto, non è detto che “virale” sia la definizione giusta. L’espressione coniata da Rushkoff nel ’94 ha a che fare con il contagio, con l’epidemia, con la contrazione di un’infezione: tutti eventi che vengono subiti passivamente, in modo impotente, da un organismo. Beninteso, esistono ricerche che, utilizzando modelli probabilistici comuni per l’epidemiologia, mostrano come questi modelli si adattino molto bene anche all’andamento dell’attenzione attirata dai video virali di successo. Ma questi modelli ci dicono poco di cosa ci sia dietro: non ci spiegano cosa abbia prodotto quei milioni e milioni di views. Come hanno scritto giustamente Henry Jenkins, Joshua Green e Sam Ford, all’origine del successo di questi video c’è un comportamento attivo: una decisione consapevole da parte di un utente che, di fronte a un contenuto mediale, sceglie di diffonderlo. Meglio allora parlare di spreadable, diffondibile, invece che di viral; oppure, se continuiamo a usare questo termine, facciamolo almeno sapendo che non si tratta di subire il contagio di un messaggio, ma di determinarne coscientemente il dilagare.
Peraltro, quando misuriamo la viralità, invece di contare le views, dovremmo concentrarci sul numero di condivisioni, di commenti, di link – e ancor di più di parodie e di mashup. Un video visualizzato moltissime volte potrebbe non essere affatto virale: un ottimo esempio sono i tutorial, video che hanno indubbiamente un alto tasso di utilità percepita dagli utenti. Eppure, l’utilità percepita non rientra tra le ragioni principali che spingono a condividere un video: a differenza di altri contenuti virali, infatti, alcune ricerche mostrano che i video non vengono quasi mai diffusi dagli utenti perchè pensano che possano essere utili per i destinatari, ma soprattutto perchè li trovano divertenti, e credono che anche i loro contatti li troveranno piacevoli.
La piacevolezza è una ingrediente fondamentale dei video virali: bisogna tenerne conto quando si progettano spot da diffondere in Rete. Quando Porter e Golan, quasi dieci anni fa, hanno proposto una definizione del viral advertising – costruita per opposizione, a partire da una vecchia definizione di advertising tradizionale – hanno concluso che dovesse basarsi su contenuti “provocativi” – sesso, violenza, umorismo nero. Le successive analisi del contenuto condotte su video pubblicitari che sono diventati virali parlano di una realtà diversa: di video divertenti, pieni di gioia, di felicità, di sorpresa. Di emozioni forti, senza dubbio, ma comunque positive, con sconfinamenti molto rari; più simili, insomma, all’advertising televisivo di quanto non si pensasse inizialmente. Anche qui, uno sguardo alle motivazioni degli utenti può aiutare: il perceived cost, vale a dire il potenziale disturbo o fastidio che gli utenti temono di infliggere ai destinatari, è un deterrente fortissimo alla condivisione. In altre parole, se pensiamo che un video possa in qualche modo urtare la persona a cui lo inviamo, ci tratteniamo dal farlo.
L’altro ingrediente fondamentale è la creatività. Ma non quella dei “creativi” che hanno disegnato, progettato e realizzato il video: piuttosto, quella degli utenti, che lo fanno proprio, lo reinterpretano, lo rimaneggiano, lo diffondono. In un fondamentale studio su YouTube, Jean Burgess ha sottolineato come i video che riescono a diventare virali siano caratterizzati da significati chiave: non semplici attributi (come l’umorismo, o la ripetitività, o la presenza di celebrities), ma veri e propri “ganci” che fungono da appiglio per reinventare il messaggio. Certo, non tutti gli utenti si dedicano a questa reinvenzione: specialmente quelli meno giovani si limitano alla condivisione, perchè meno sensibili a un’esigenza di autoespressione che invece appare più forte negli studenti. Il punto fondamentale è che nessuno – tanto meno gli autori del video – conoscono questi significati chiave in anticipo: potranno essere identificati solo dopo la diffusione e la condivisione. Il creativo propone, ma è l’utente che dispone: seleziona, estrapola, rilegge, ripete. E’ solo dopo essere stato ridiffuso per n volte che un video virale è riconoscibile come tale: non è predictable (come ha giustamente ricordato Paxton Gray di 97th Floor, mio compagno di speech), ma è sempre frutto di un’iniziativa degli utenti.
Qui sta il problema: come conciliare questa iniziativa, questa libertà, questa scelta, con la persuasione, la convinzione, l’influenza – sia essa diretta all’acquisto di un prodotto o alla condivisione del video – che i marketers si aspettano vengano esercitate da un video ad? Meglio di tutti lo ha detto Burgess: “how, or whether, the ‘bottom-up‘ dynamics of viral video can be mobilised for instrumental purposes – from marketing to political advertising – remains an open question”. E questa domanda, rigirata alla platea di SMX Milan, suona: è possibile qualcosa come il viral video advertising?