L’inizio dell’anno, si sa, è sempre ricco di buoni propositi, e di previsioni tendenzialmente ottimistiche: specialmente nel campo digitale, dove fioriscono le liste di tendenze da non perdere per i prossimi 12 mesi, gli elenchi dei filoni di sviluppo da tenere d’occhio, i cataloghi delle novità che plasmeranno il nostro immediato futuro. Ma al di là delle innovazioni più recenti, cominciano a delinearsi con maggiore chiarezza le direttrici di un cambiamento di lunga durata, di natura antropologica più che tecnologica: una mutazione concomitante con la digitalizzazione, che incide su almeno tre aspetti fondamentali per la costruzione dell’identità umana.
La memoria, l’attenzione, la conoscenza di sé nell’era del digitale sono a diverso titolo sollecitati, modificati, trasformati. Sugli effetti cognitivi delle nuove tecnologie si sono fronteggiati pessimisti (come Carr o Spitzer) e ottimisti (come Prensky), enfatizzando da un lato il rischio di perdita della memoria lunga e di perenne deconcentrazione, dall’altro l’opportunità di utilizzare i tools digitali come potenziamento delle capacità della mente. La sempre più diffusa delega del nostro ri-conoscimento del mondo a questi supporti cambia in realtà la natura stessa della conoscenza, che si dispone ad abbandonare i panni della capacità di trattenere per vestire quelli della capacità di ricercare e richiamare con efficacia.
Un discorso analogo vale per la conoscenza di sé, a proposito dei meccanismi di recommendation, sempre più largamente utilizzati dai servizi di streaming online, sia video che audio, ma anche dai siti di ecommerce. Nati come vademecum per l’utente all’interno di cataloghi di brani, libri, film e serie TV sempre più vasti, con lo scopo di fronteggiare così la “fatica della scelta” e il pericolo di smarrimento e frustrazione, allo stesso tempo questi meccanismi sono strumenti di profilazione, che consentono di raccogliere informazioni sempre più dettagliate su gusti e abitudini, e costruire per ciascuno un mondo su misura – sia ai fini dell’utente stesso, accolto da un contesto familiare e presumibilmente rassicurante, sia ai fini del servizio, che utilizza questi dati a scopi commerciali e pubblicitari.
Eppure, il perfetto funzionamento di questi meccanismi presupporrebbe un utente perfettamente conoscibile, non solo per il sistema nel quale si è avventurato, ma anche a se stesso. In un calcolo che mescola la storia delle selezioni, dei consigli e delle valutazioni non c’è spazio per i ripensamenti, le torsioni, le pieghe nelle quali la personalità di ciascuno corre a nascondersi proprio quando si pensa di averla completamente svelata. D’altro canto, accodarsi al flusso delle raccomandazioni significa rinunciare a farsi sorprendere, abdicare alla meraviglia dell’inatteso, in una parola accantonare la serendipity che aprirebbe le porte ad aspetti di sé, della propria storia, dei propri desideri ancora inesplorate.
Se nel primo caso, dalla prospettiva del sistema, l’imperfetta aderenza alla multiforme realtà personale sfocia, al peggio, nell’inefficiacia commerciale (ma il sistema può continuare a perfezionarsi, aspirando prima o poi a ridurre a zero lo scarto), nel secondo caso, dalla prospettiva dell’utente, adeguarsi alla descrizione che il sistema ha elaborato della propria personalità significa inevitabilmente un impoverimento, e può sfociare in una frustrazione molto simile a quella ben nota ai “vecchi” telespettatori – accasciati sul divano domestico dopo il fallimento di un frenetico zapping, ormai rassegnati alla programmazione generalista.
Il discorso potrebbe essere allargato ad altri ambiti del digitale, primi tra tutti i social network che ricostruiscono le nostre reti di relazioni, interessi e conoscenze lasciando poco spazio alle incursioni in territori sconosciuti – rischiose forse, ma allo stesso tempo ricche di opportunità. Vogliamo davvero che il mondo digitale in cui ci aggiriamo ci somigli sempre di più – o meglio somigli sempre più a una nostra identità congelata, rappresa, nella quale potremmo ben presto far fatica a riconoscerci? Si tratta di un esito inevitabile? Quali strategie, quali correttivi, quali sotterfugi possono permetterci di fuggire dalla prigionia della profilazione, restituendoci la piena facoltà della nostra conoscenza di noi stessi – sempre imperfetta, certo, ma proprio per questo sempre aperta al miglioramento e alla crescita?