Tutto per me è cominciato con questo tweet di Maurizio Goetz:
I mercati sono mercati e le conversazioni sono diventate chiacchiere. Il Cluetrain, un’utopia che non si è mai avverata.
— Maurizio Goetz (@maueebaby) 31 marzo 2016
A questo tweet ne sono seguiti molti altri, in uno scambio che ha coinvolto altri professionisti del digitale come Giuliana Laurita, Rachele Zinzocchi, Claudio Ferilli, Felicia Pelagalli e Flavia Rubino, suddivisi in maniera più o meno equilibrata tra sostenitori e dissenzienti. Non so se questo possa servire di sollievo ai primi, ma dopo averci pensato meglio sento di far piuttosto parte dei secondi. Mi spiego, provando a tirare le fila.
Trovo che Maurizio faccia bene a definire il Cluetrain Manifesto un’utopia. Lo è stata davvero, nella misura in cui sembrava delinare i tratti di un mondo nel quale le barriere tra il dentro e il fuori, tra il sopra e il sotto, tra il grassroot e il corporate sarebbero venute meno. Il veicolo di questa trasformazione sarebbe stata la Rete, che grazie alla sua stessa struttura avrebbe sovvertito le gerarchie formali e soppiantato per sempre la “vecchia” comunicazione massmediale. Qualche tweet dopo, Maurizio ha parlato di favole, di sogni: se l’obiettivo era realizzare quel genere di mondo, il termine mi sembra appropriato. Se è questo che il Cluetrain doveva significare, allora sono d’accordo nel dichiararne il fallimento; un fallimento che segue – e precede – quello di tutte le altre utopie simili, che a mio parere peccano di logica. Se eliminiamo sopra e sotto, dentro e fuori, e così via, quello che resta è semplicemente l’indistinzione: e questo è un problema logico, non politico o morale.
Sono ancor più d’accordo, se l’intesa fosse che tutto sarebbe cambiato automaticamente, in maniera inevitabile, purché ci si affidasse a Internet. Questo significa non solo sbagliare obiettivo, ma anche metodo, assegnando a uno strumento – perché il Web è questo, e nient’altro che questo – una responsabilità che tocca invece sempre a chi lo utilizza, più o meno bene, in maniera più o meno appropriata. Internet è stata negli anni investita di ogni genere di compito (tra gli altri, giusto per tenere fede allo spirito di questo blog, anche quello di uccidere la televisione, che invece non solo è ancora vivissima, ma lo sta a suo modo fagocitando), salvo poi essere stigmatizzata e condannata ad ogni crisi, ad ogni smentita, a ogni brusco risveglio.
Il Cluetrain Manifesto è stato però anche altro. Tra le 95 tesi si trova la prefigurazione di una nuova dinamica di mercato, della quale la voce del consumatore fa parte integrante, e non più accessoria. Per qualunque azienda, in qualunque mercato, ascoltare questa voce, sollecitarne l’espressione, farsi in quattro per soddisfarne le istanze non è più un optional. Io trovo che questo sia vero anche al di là del concetto di “utilità”, citato sia da Maurizio che da Rachele e da Flavia: riesce, vende e ha successo chi aiuta, ma ancora più in generale chi dà un senso. Che questo avvenga tramite il famigerato storytelling o meno, non ha molta importanza: quando un brand soddisfa una domanda di senso, di orientamento, di identità, allora è per sempre. Naturalmente, c’è chi l’ha sostenuto molto meglio di me.
Quello che mi sembra vivo, vivissimo del Cluetrain Manifesto è il concetto di empowerment, caro a molti degli interlocutori di Maurizio. Empowerment non è rivoluzione, sovversione, ribaltamento: forse qui sta il reale fraintendimento, nato dalla radice del power con cui continuiamo ad avere, in tutto l’Occidente, un rapporto quanto meno tormentato. Empowerment è acquisizione di opportunità, di strumenti e di facoltà. Empowerment è aumento di consapevolezza, di autonomia, è partecipazione: conquista di libertà e responsabilità insieme. Sì, perché le due vanno sempre, necessariamente di pari passo – anche qui, per una ragione logica, non politica o morale. Se si lascia cadere la seconda, la prima ne risulta inevitabilmente limitata, e gli utenti dei social network – malgrado tutte le chiacchiere, i gattini e le nuove catene di S. Antonio – lo sperimentano ogni giorno.
Se dovessi rispondere alla domanda se il consumatore di oggi sia più o meno empowered di quando il Cluetrain Manifesto è stato scritto, risponderei senz’altro di sì. Questo si deve in buona parte al Web, che ha reso possibile quella che il Censis chiama disintermediazione. E la disintermediazione ha reso possibili tante altre cose: dal contatto diretto con i brand ai flames, dal crowdfunding al cyberbullismo, da Uber ai gruppi Whatsapp delle mamme di scuola. Ma nessuna di queste è stata generata dal web, a me pare: tutte erano già tra noi, in noi, emergendo appena abbiamo avuto a disposizione uno strumento per accedervi. Non è lo strumento ad averne i meriti, o i demeriti: tutto dipende, ancora una volta, da noi – e a me sembra che quest’affermazione rappresenti la più salda professione di fede nell’empowerment.