Come leggeremo in futuro? E se leggeremo in digitale, come impareremo? E se non leggeremo affatto, saranno i sistemi intelligenti a farlo al nostro posto? Le implicazioni della Dichiarazione di Stavanger, frutto del lavoro del network di ricercatori E-Read, segnalato sulle pagine del Sole 24 Ore da un bell’articolo di Lorenzo Tomasin, sono ingenti non solo in tema di lettura digitale, argomento della ricerca quadriennale del gruppo, ma più in generale per il loro impatto sull’apprendimento, sullo studio e sulla memoria umana.
Per la nostra cultura, nativamente legata alla scrittura, la conoscenza è in larga parte frutto di studio: questo a sua volta è connaturato alla lettura e alla memorizzazione. Imparare in una cultura orale, come ha evidenziato Walter Ong in “Oralità e scrittura”, significa tutt’altro: ripercorrendo la maturazione della tesi di Parry sulla matrice orale dei poemi omerici, Ong ricorda la posizione di Robert Wood, il quale “suggerì che il ruolo giocato dalla memoria in una cultura orale fosse molto diverso da quello esercitato in una cultura letteraria”(p. 62 della traduzione italiana). A maggiore ragione ci si potrebbe chiedere quale sia il suo ruolo nelle successive evoluzioni di questa cultura. Anzitutto quella individuata dallo stesso Ong e definita “oralità secondaria”, tipica dell’era dei media elettronici (vale a dire radio e TV): una cultura nella quale si assiste al ritorno di alcune caratteristiche dell’oralità primitiva – “per la sua mistica partecipatoria, per il senso della comunità, per la concentrazione sul momento presente e persino per l’utilizzazione delle formule” (p.194) , ma più “deliberata e consapevole, premanentemente basata sull’uso della scrittura e della stampa”.
Come si trasforma la memoria in quest’epoca? Stando alle evidenze di una recente ricerca, pubblicata dallo Scientific Report e realizzata su un campione di più di tremila adulti, la fruizione prolungata di TV può avere conseguenze negative sulle capacità cognitive degli anziani: in particolare, la natura di “vigilanza passiva” propria dell’attività dello spettatore potrebbe contribuire al declino della memoria. Al contrario, attività come l’interazione con la Rete o il gioco con i videogames secondo la stessa ricerca sembrerebbero preservare le funzionalità mentali. In realtà, i nessi non sono così stringenti, se una delle ricercatrici precisa che occorrerebbe un supplemento di ricerca per stabilire una connessione certa tra la visione della TV e la demenza senile.
Significativamente, la correlazione tra utilizzo dei media digitali e la memorizzazione tipica dello studio non rappresenta un argomento di ricerca altrettanto popolare. Nella prefazione all’edizione italiana dell’opera di Ong, Gino Roncaglia suggerisce che quella dell’epoca digitale che viviamo possa essere considerata una “scrittura secondaria”, che intrattiene con quella primaria lo stesso rapporto che l’oralità secondaria intratteneva con l’oralità primaria delle culture come quella omerica. Allo stesso modo, quindi, è lecito attendersi significative modificazioni del ruolo della memoria, soprattutto per quanto riguarda la capacità di apprendimento. La Dichiarazione di Stavanger menzionata in principio indica una direzione in proposito: non solo la comprensione del testo scritto su carta è risultata più forte di quella del testo fruibile su schermi, ma la lettura di testi sufficientemente lunghi e complessi – tipici della stampa, pressochè banditi dal digitale – risulta capace di “favorire l’attenzione mentale, la pazienza e la disciplina”, “offre esperienze emotive ed estetiche, accresce le conoscenze linguistiche e migliora il benessere economico e personale”.
Al di là degli approfondimenti dell’indagine, vale la pena di tornare al quesito fondamentale: se leggere è la condizione indispensabile dell’apprendimento tramite lo studio, e se la memorizzazione nelle culture letterarie come la nostra passa necessariamente dalla lettura, quale potrebbe essere l’impatto della transizione al digitale – non solo in termini di adozione degli e-book in luogo dei tradizionali testi didattici, ma considerando la tendenza della tecnologia alla transizione verso supporti mnemonici di nuova generazione, in larga parte invisibili e indecifrabili se non con appositi software? La domanda è almeno lecita, e la direzione di ricerca senz’altro aperta.