L’articolo di Antonio Pennacchi che su Repubblica ha stigmatizzato il metodo di insegnamento della scuola italiana, premessa dei deludenti risultati dei test Invalsi, merita una riflessione più distesa, al di là dell’inevitabile (forse) slittamento nella laudatio temporis acti. In sostanza, Pennacchi stabilisce una correlazione tra la scarsa capacità di comprensione di un testo (principale criticità evidenziata dai test Invalsi) e la mancanza di disciplina, tanto mnemonica quanto fisica (i cari vecchi schiaffi, insomma), nel metodo di apprendimento.
Tralasciando i dubbi sulla reale validità di questa correlazione, vale la pena di concentrarsi sul suggerimento dello scrittore: tornare alla memorizzazione come viatico indispensabile per lo studio e quindi per la conoscenza. Il presupposto è un concetto del sapere che rimanda all’immagazzinare e trattenere informazioni, da recuperare poi in un secondo momento. Conoscenza, quindi, come fenomeno anzitutto contenitivo (che a sua volta implica una concezione atomistica dell’informazione), e conseguenza naturale della memorizzazione, ossia del trasferimento sicuro del contenuto-informazione nel contenitore-memoria: “se non si ricorda, non si conosce”. Una concezione quanto meno inattuale, nella nostra epoca di memorie delegate, digitali, alle quali affidiamo non soltanto informazioni e nozioni ordinarie e straordinarie, ma gli stessi ricordi personali.
La nostra memoria è in profonda trasformazione, e con essa la natura della nostra conoscenza.
Può piacerci o meno, ma sta accadendo: e io credo che questo processo, di cui abbiamo già parlato, richieda un’analisi e una comprensione più profonde di quella consentite da un atteggiamento di mera negazione, o peggio ancora condanna. Se da un lato le grandi memorie delegate sembrano sollevarci, per così dire, dall’onere di trattenere la conoscenza (e resta valido il sospetto che così facendo si indebolisca la nostra capacità di farlo tout court in maniera efficace), dall’altro ci sfidano ad allenare un altro tipo di capacità, forse non meno essenziale: quella di stabilire connessioni, individuare e applicare criteri di ricerca e recupero dell’informazione, che appare sempre meno simile a oggetto e sempre più a reticolo di relazioni.
Il vero punto è tuttavia un altro: grazie alle memorie delegate oggi a questa stessa capacità è oggi offerta immediatamente una mole di informazioni assolutamente incomparabile rispetto a quella accessibile in passato al singolo individuo, alla sua rete sociale di primo o anche secondo grado, in una parola alla sua comunità rilevante. Se per conoscenza non intendiamo il possesso statico, ma una facoltà dinamica di accesso all’informazione, intesa non come dato ma come relazione tra entità cognitive, ecco che la conoscenza è quindi immensamente più ampia che in passato. Per valutarne l’effettiva acquisizione (altro verbo discutibile, in questo contesto) bisognerebbe perciò adottare criteri diversi, e indubbiamente lontani dalla verifica della presenza o meno di un dato contenuto-informazione in un contenitore-memoria.
Tutto questo peraltro in linea con l’obiettivo dichiarato, vale a dire, nel caso dei test Invalsi, la capacità di comprensione di un testo: che in sé assomiglia molto più alla facoltà dinamica della quale stiamo parlando, capace di individuare strutture e connessioni di significato, che alla semplice presenza alla memoria di un testo come conseguenza della memorizzazione (testo che potrebbe restare del tutto incompreso anche dallo studente in grado di ripeterlo pedissequamente). Piuttosto, l’abilità di comprensione si direbbe correlata a una vasta esperienza di letture e di esplorazioni testuali, senz’altro poco consueta per gli studenti sottoposti ai test, che di per sé tuttavia non approda quasi mai alla conservazione mnemonica del testo come descritta prima. Non si legge mai abbastanza, e non si consiglia mai abbastanza di leggere a chi voglia conoscere: ma conoscere e leggere, nell’era digitale, si avviano a significare qualcosa di profondamente diverso da quello a cui siamo stati abituati, qualcosa che evidentemente ci spaventa, tanto da non consentirci – ancora – di chiederci serenamente cosa sia.