Nel mio lavoro, la diffusione della conoscenza è pane quotidiano. Spesso, mentre spezzo questo pane, mi rendo spesso conto che i miei ospiti hanno già fatto la spesa. E che spesa: ognuno di loro porta con sé un sacchetto ricolmo di vivande, genuine, spesso costose, di qualità. Eppure, nessuno di loro se ne accorge: si siedono alla tavola, sistemano la borsa della spesa ai loro piedi, e aspettano il mio tozzo di pane come se fosse l’unico cibo a disposizione e la cosa più buona che abbiano mai mangiato. Quando accade, mi domando se invece di distribuire subito le fette di micca non farei meglio a chiedere prima a ciascuno di guardare nella propria sporta e tirare fuori le leccornie che contiene a beneficio di tutti i commensali.
A parte la metafora vagamente azzardata (o forse fin troppo consueta), la domanda è: quanta parte della formazione è fatta di emersione della conoscenza implicita? Per la mia esperienza, una parte importante. La mia risposta è debitrice di una concezione del sapere come fenomeno reticolare, fatto di correlazioni dinamiche molto più che di oggetti statici; e da una corrispondente concezione della nostra memoria, vista come processo invece che contenitore. Questo significa che formare implica di certo trasferire nuove nozioni, trasmettere nuove tecniche, consegnare nuovi strumenti, esercitare nuove competenze: ma niente di ciò sarebbe possibile senza l’aggancio a un sapere pregresso da (ri)attivare, importante quanto – se non più – di quello da acquisire.
La nostra conoscenza è indistricabile dalla dimensione mnemonica, con le sue stratificazioni, con le intersezioni che opera tra biografia e storia personale e collettiva, con la in(de)finita rielaborazione alla quale viene sottoposta ogni esperienza, ogni informazione, ogni acquisizione. Nell’epoca del digitale, queste esperienze, informazioni e acquisizioni sono sempre più esternalizzate, perché delegate a memorie esterne; a maggior ragione,è ancora più necessario allenare la capacità di riappropriarsene, attivando le loro connessioni per trasformarle in un reale sapere. Potrebbe trattarsi di un sapere più consistente e strutturato di quanto noi stessi ricordiamo: ma sarebbe comunque evanescente se restasse dormiente, senza alcuna effettività, disconnesso dal resto del nostro patrimonio cognitivo.
Il lavoro del formatore dunque non è soltanto maieutico, ma archeologico: facilitare la riemersione della conoscenza sepolta, ancorarla alla nuova conoscenza proposta, perché entrambe collaborino alla (ri)costruzione di un quadro coeso, sensato. Per tornare alla metafora iniziale, bisogna sì distribuire il pane, ma incoraggiando a usarlo per la scarpetta, per accompagnare la pietanza, per gustare entrambi. E buon appetito a tutti.