Tra le varie retoriche più o meno sopportabili (meno, in questo caso: almeno per me) che l’esperienza dell’epidemia di CoViD-19 sta contribuendo a smontare c’è quella dei cosiddetti “nativi digitali”. Chiunque in questi giorni abbia avuto a che fare con qualche studente italiano, e con la necessità di abilitarne l’accesso a una didattica a distanza insieme improvvisata e necessaria, si è trovato costretto a constatare la presenza di lacune forse ancora maggiori rispetto a quelle già evidenziate nel corpo insegnante: lacune che vanno dall’utilizzo di un PC come strumento per la navigazione web all’accesso a una casella di posta elettronica, dalla comprensione di meccanismi basilari come il salvataggio o l’upload di documenti all’orientamento nell’alberatura di cartelle e files propria di un sistema operativo.
Certo, sarebbe sbagliato generalizzare: ma lo sarebbe altrettanto ignorare il fenomeno e le nostre responsabilità – le responsabilità della generazione che ha visto la nascita della Rete. Per anni li abbiamo chiamati nativi digitali: abbiamo magnificato le loro mirabili abilità con i dispositivi più avanzati, la familiarità con gli schermi touch, la rapidità nell’adozione di nuove piattaforme e applicazioni, ritraendoci ammirati di fronte a tanta presunta competenza, liquidando il faticoso apprendistato a cui noi migranti digitali abbiamo dovuto piegarci per anni per assimilare le logiche dei sistemi di elaborazione via via più complessi, abdicando completamente a trasferire loro quello che abbiamo imparato.
Sorpresa: ci siamo sbagliati. Incoraggiando e legittimando la superiorità dei giovani, non abbiamo fatto che riprodurre un digital divide anagrafico, se possibile ancora più pericoloso di quello tra noi e i meno giovani, perchè in grado di gettare un’ipoteca sul futuro. Assimilare le logiche, comprendere i sistemi, pensare le intelligenze artificiali è faticoso; imparare a utilizzare i sistemi in maniera non solo funzionale, ma consapevole, resta oneroso e indispensabile. Il fatto di avere negli anni via via delegato alle macchine la quantità di intelligenza necessaria a penetrarne il funzionamento non legittima nessuno, più o meno millennial, ad accontentarsi di scivolare su interfacce sempre più user-friendly; non ci autorizza a diffondere la propaganda secondo la quale digitale, innovazione, tecnologia sarebbero tutti lì, nelle icone colorate degli schermi di uno smartphone, invece che nella complessa relazione tra uomo e macchina che non smette di interrogarci.
La stessa interrogazione avremmo dovuto trasferire ai più giovani: spiegando loro che l’ecosistema tecnologico non procede per sostituzione, ma per affiancamento e specializzazione, come in un meccanismo evoluzionistico; insistendo perchè assimilassero la logica, prima di affacciarsi alla pragmatica; guidandoli in un panorama molto più complesso di quanto sia immediatamente percepibile, non solo in quanto discenti di oggi, ma come cittadini di domani. Il mio insegnante di matematica alle scuole medie chiamava il computer “lo scemo veloce”: ecco, oggi gli scemi veloci sono intorno a noi, e non sono macchine, ma persone ridotte a macchine, perché sarebbe stato troppo complicato, troppo lungo, troppo faticoso imparare a essere altro.
La buona notizia è che, come allora per il maestro Manzi, anche stavolta non è mai troppo tardi: non è tardi per accostarsi alle funzionalità, agli strumenti, alle procedure dei sistemi con umiltà e voglia di imparare. La formazione, ieri come oggi, resta la chiave per diventare pienamente cittadini del mondo digitale: ma contrariamente a quanto abbiamo pensato, la necessità della formazione non riguarda solo, né soprattutto, i più attempati, e non si limita a trasferire ai ragazzi nozioni e accorgimenti per la sicurezza in Rete, che pure restano essenziali. Paradossalmente, proprio l’epidemia potrebbe darci una mano nel dare inizio a un’operazione seria e approfondita di digital literacy nei confronti delle nuove generazioni: un’operazione di sicuro successo, perchè tra i tanti luoghi comuni che circolano sui più giovani almeno uno non lo è: le loro menti sono fresche, flessibili, aperte. Farne o meno gli ennesimi “scemi veloci”, adesso, sta solo a noi.