Cosa resterà del coding? Nemmeno aveva fatto in tempo ad entrare nella programmazione didattica (più teorica che pratica) della nostra scuola dell’obbligo, che l’insegnamento della programmazione potrebbe già prepararsi ad essere superato, vista l’avanzata sempre più rapida delle cosiddette piattaforme no-code. Si tratta di soluzioni che consentono di costruire strumenti digitali (tipicamente applicazioni mobile o web) senza scrivere codice, quindi senza conoscere linguaggi di programmazione.
Il grande interesse suscitato da tipo di soluzioni, caratterizzate dalla facilità d’uso, è riconducibile alla persistente carenza, nei contesti professionali, di competenze verticali (non semplicemente “digitali”, il che significa qualcosa di più ampio e comprensivo, come vedremo) . Una risposta efficace a un bisogno diffuso, insomma, soprattutto nelle aziende medio-piccole alle prese con l’imperativo della trasformazione digitale; più in generale, una tendenza che promette di innescare un processo paragonabile alla democratizzazione dell’utilizzo del PC grazie all’interfaccia alla portata di tutti .
Il caso delle no-code platform non deve naturalmente indurre a pensare che la programmazione diventi inutile, o scompaia del tutto – per la banale ragione che le stesse piattaforme di cui parliamo sono fatte di codice, e molto raffinato; e le aziende che le producono, in massima parte start-up innovative, sono talmente numerose e agguerrite da aver dato vita a un vero e proprio nuovo mercato. Esattamente come avvenuto in altri settori, tuttavia, parliamo di una nicchia che va specializzandosi, dedicata a un’attività da confini sempre più precisi. Formare a questa attività, esattamente come per altri settori, è necessario e significativo a certe condizioni, e non universalmente e a prescindere.
Il punto è semplice:
l’approccio che identifica le competenze digitali con quelle tecniche invecchia altrettanto rapidamente di queste.
Al ritmo in cui ci incalza l’evoluzione del quadro tecnologico, non è realistico pensare che una formazione incentrata sugli strumenti (piattaforme e linguaggi, in questo caso) progettata e messa in campo anche solo cinque anni fa risulti ancora adeguata. Ma se la formazione appare logora, questo significa forse rinunciare alla formazione? Tutt’altro: occorre puntare a una formazione a prova di logoramento.
Da un lato, il percorso formativo scolastico, superiore e poi professionale, per essere sempre efficace e valido deve mirare a costruire competenze durature: prima tra tutte, la logica, che non è una delle soft skill, ma al contrario la più hard di tutte, costituendo non solo il fondamento del nostro pensiero, ma anche quello di qualsivoglia attività connessa alla dimensione digitale.
Dall’altro, è necessario disporsi a una formazione realmente che si estenda per tutta la vita:
– in senso temporale (lifelong), continuando ininterrottamente attraverso l’esistenza e insinuandosi in una logica “interstitial” in ogni momento utile per l’apprendimento;
– in senso spaziale (lifewide), abbracciando luoghi e occasioni di apprendimento non formalizzati, in una logica di diffusione e contaminazione.
Oltre a “estendersi”, tuttavia, una formazione che non “consumi” il discente, ma al contrario lo aiuti a prosperare, deve “intendersi”: agire in senso intensivo (lifedeep), sviluppandosi in una profondità che coinvolga la pienezza della persona, puntando non solo all’acquisizione di un’abilità puntuale e isolata, ma alla maturazione intellettuale e morale dell’individuo.