Filosofia, memoria e intelligenza artificiale

La filosofia, come si diceva, si è già affacciata da tempo sul tema dell’intelligenza artificiale, dedicandosi a riflessioni sulle sue implicazioni etiche, sociali e politiche. Meno frequentato nel dibattito, tanto pubblico quanto accademico, resta il versante gnoseologico, forse dato per assodato, o già delegato a altri saperi. A ben vedere, invece, l’analisi dell’impatto dell’AI sulla facoltà umana di conoscere rappresenta uno dei contributi più essenziali, e più propri, che la filosofia può offrire: si tratta dell’aspetto centrale, che decide dei precedenti, e dal quale dipendono ulteriori, e non meno importanti, implicazioni.

Per il filosofo Henri Bergson, la memoria rappresenta il controcanto della materia , radicalmente alternativa e quindi irriducibile a quest’ultima. La materia ha a che fare con la percezione, che articola il rapporto tra i corpi esterni e l’azione del nostro stesso corpo, mentre la memoria appartiene alla dimensione spirituale, perpendicolare alla prima, che a mo’ di cuneo insiste sul piano della corporeità solo in un punto: quello del contatto con il presente, dimensione inconsistente del continuum temporale proprio dello spirito. Detta diversamente, per Bergson la memoria non è un fenomeno fisico, localizzabile nel corpo, e in particolare nel cervello: la sua peculiarità non è quella di “contenere” esperienze, magari articolate in sequenze automatiche che costituiscono l’abitudine, ma di interiorizzare ogni percezione presente e poi subito passata fino a renderla una componente dell’anima, definendo la soggettività, nella sua natura insopprimibile di durata.

A ben vedere, di memoria Bergson parla almeno in due accezioni diverse: una, quella che abbiamo appena visto, contrasta con l’altra, legata a sequenze  che collegano oggetti, ambienti e azioni, rese automatiche dalla ripetizione. Le abitudini, le pratiche, le reazioni irriflesse che costellano la nostra quotidianità, dallo spegnimento della sveglia che suona al movimento con cui portiamo la posata con il cibo alla bocca, dalla pedalata in bicicletta alla dell’automobile  – anche questa sempre meno pensata e sempre più meccanica – sono solo alcuni degli esempi possibili.

In questo caso, siamo di fronte a esperienze che hanno a che fare con il corpo, invece che con lo spirito: con i vincoli e gli intrecci della realtà fisica, invece che con la storia e le stratificazioni di quella interiore. Qualcosa di simile, insomma, ai pattern individuati, analizzati e riprodotti nel machine learning; mentre la memoria “pura”, come viene definita, è puro spirito, principium individuationis dell’uomo come essere autocosciente, e si direbbe impossibile da replicare in un’intelligenza non umana.

La distinzione tra il reame della pura percezione – materiale e meccanizzabile  – e quello della pura memoria – storico e perciò squisitamente umano – sembra tuttora il discrimine più attuale tra l’uomo e la macchina, il punto nel quale finisce la delega delle routine – da quelle quotidiane e personali a quelle dell’automazione avanzata, in particolare industriale – e comincia la nostra personalità e perciò della nostra storia. Ma cosa accade se la delega dei ricordi personali nei confronti delle memorie esterne e digitali diventa così massiccia da pregiudicare la nostra capacità di trattenerli, e quindi incorporarli nella nostra identità? È possibile pensare che il discrimine si sposti tanto da ipotizzare che la stessa coscienza possa, presto o tardi, essere delegata e quindi espulsa dai confini della persona per essere ereditata da entità di natura diversa? Se esiste un ambito in cui è ancora corretto, e anzi necessario porre domande come queste è quella della filosofia, che senza cessare di essere interrogazione etica è al contempo estetica, gnoseologica e ontologica.

(continua)