“Nel tipo di società che si va oggi configurando, una società in cui il compito di elaborare, accumulare e reperire informazione dovrebbe svolgersi prevalentemente in rete e tramite il computer, quale sarà il futuro della memoria e del sapere? In breve, un cambiamento tanto radicale contribuirà in avvenire a un potenziamento o a un depotenziamento della nostra capacità individuale e collettiva di conoscere?” Quando Tomàs Maldonado si poneva queste domande, nel saggio “Memoria e conoscenza”, pubblicato per la prima volta nel 2005, era già evidente quanto profonda si annunciasse la trasformazione della conoscenza umana nell’era digitale: da allora, sono comparsi sulla scena diversi elementi aggiuntivi che spingono ad approfondire i suoi interrogativi.
A partire dai social network, ai loro albori nel momento in cui Maldonado scriveva, che hanno trasformato il rischio di un “declino dell’uomo privato”, denunciato dall’intellettuale, in un obiettivo scientemente perseguito dalla quasi totalità della popolazione mondiale – non più semplicemente “complice” della violazione della sua privacy, ma volenterosa artefice della stessa. Oltre che come efficaci strumenti di sorveglianza, nutriti dai sorvegliati stessi che scelgono di esporvisi sistematicamente (e a prescindere dalle condizioni poste unilateralmente), i social network funzionano proprio come surrogati di memoria, soprattutto visiva, tanto individuale quanto collettiva – il che potrebbe rappresentare il principale dei “vantaggi” che, secondo l’autore, spiegherebbero tanta accondiscendenza verso l’invasione della sfera personale.
Il dilagare della volenterosa folla sorvegliata dai social sta tuttavia sortendo un effetto diverso da quello che Maldonado considera inevitabile in termini di destabilizzazione del rapporto tra identità personale e memoria. Lungi dal generare crisi del senso di appartenenza, l’avvento della “networked society” ha acutizzato, persino esasperato le appartenenze; invece di provocare la perdita dei confini tra la nostra realtà e quella altrui, tra le nostre opinioni da quelle altrui, mettendo a repentaglio “la nostra chiusura nei confronti dell’invadenza degli altri”, la vita trascorsa sulle reti sociali ha consolidato e estremizzato le appartenenze, tanto da far parlare di “filter bubble” (espressione fin troppo popolare, rispetto alla quale è necessario iniziare a adottare una certa prudenza, quanto meno dopo la pubblicazione di articoli come questo).
Basta tanto per decretare che non ci dirigiamo verso un indebolimento, ma anzi verso un irrobustimento dell’identità personale e collettiva? Non si direbbe: entrambe queste identità in Rete sono tanto marcate quanto labili, tanto urlate quanto evanescenti, tanto esclusive quanto mutevoli. Non solo umori e opinioni, ma posizioni e definizioni della folla digitale sono in balìa della perenne metamorfosi digitale. La ragione potrebbe risiedere, ancora una volta, nel fatto che a questa identità non corrispondono robuste radici nella memoria, né in quella del sé né in quella del noi, sistematicamente delegata alle memorie surrogate – tra cui quella dei social. Il problema di Maldonado, la destabilizzazione del rapporto tra identità personale e memoria, sarebbe dunque ancora attuale, ma invece che la crisi dell’identità personale a determinare “un progressivo assottigliamento della memoria individuale e collettiva”, sarebbe l’inverso.