Siamo abituati a identificare Internet con la connessione. Naturale, dal momento che la Rete si è presentata storicamente al grande pubblico anzitutto come un fenomeno di comunicazione, anzi, di tele-comunicazione: l’erede del telegrafo, della radio, del telefono, e da ultimo anche della televisione. L’effetto immediatamente osservabile della diffusione del Web è stato la moltiplicazione delle relazioni comunicative, instaurabili non solo in modalità monodirezionale – come accadeva con i “vecchi” media in broadcast -, ma bidirezionale e interattiva; e non solo a livello individuale – come accadeva con gli strumenti di telecomunicazione tradizionali – ma di massa, potenzialmente accessibile a tutti. La disponibilità di un nuovo canale con queste caratteristiche ha funzionato da detonatore rispetto alla produzione e alla circolazione di informazione, determinando una formidabile accelerazione nella creazione e condivisione dei dati. Fornire una stima quantitativa si avvia da qualche tempo a diventare un esercizio vano, perché immediatamente smentito: come pura registrazione storica si può dire che, secondo le previsioni del Cisco Visual Networking Index, nel 2022 il traffico annuale di dati, che era di 1,5 zettabyte nel 2017, raggiungerà i 4,8 zettabyte. Se questa cifra suona sbalorditiva, a maggior ragione lo è quella del patrimonio complessivo dei dati in Rete: nel 2015, Forbes stimava che cinque anni dopo avrebbe potuto superare 44 Zettabytes, ma stando ai trend di produzione e diffusione è probabile che la stima realistica sia da rivedere al rialzo almeno di una decina di SB.
Il punto è che questo patrimonio informativo non è soltanto prodotto, diffuso, condiviso, ma anche conservato. Da questo punto di vista, il Web non è solo connessione, ma anche persistenza: ne fanno parte integrante e costitutiva i materiali che la abitano, quelli che nel tempo sono stati trasmessi attraverso le sue infrastrutture e poi archiviati nei suoi server. Sin dal principio, all’origine di Internet, prima ancora della sua trasformazione in fenomeno comunicativo di massa, si verifica l’oscillazione tra due modelli: da un lato, la biblioteca, l’archivio, il “deposito” di informazioni, dall’altro la Rete, appunto, il collegamento, l’ipertestualità, la possibilità di consultare quella biblioteca, quell’archivio, quelle informazioni. La convivenza tra i due modelli è già presente al momento della prima trasmissione di informazioni tramite la Rete, ricordata il 29 ottobre nell’Internet Day del cinquantennale: pochi anni prima che Leonard Kleinrock, Charles Kline e Bill Duvall collegassero i due computer, il primo alla UCLA e il secondo a Stanford, il primo direttore dell’IPTO dell’ARPA, Joseph Licklider, aveva pubblicato il suo libro sulle “biblioteche del futuro”, affrontando in maniera il problema della gestione strutturata dell’informazione disponibile in un corpus di conoscenze. Di lì a breve, la sua visione sarebbe maturata in un ulteriore progetto, l'”Intergalactic Computer network”, a tutti gli effetti precursore della Rete come la conosciamo oggi, e incarnazione compiuta dell’ambivalenza.
Rispetto a questa situazione, l’evoluzione del Web negli anni ha segnato un passaggio ulteriore, che ha a che fare con la sua costitutiva decentralizzazione. La trasmissione è diventata parte integrante dell’informazione: i dati prodotti, trasmessi e condivisi non sono distinti e separati dalla Rete che ne permette la diffusione, perché invece che da un singolo polo di conoscenza (come un’università o un centro di ricerca), provengono dagli stessi utenti che ne sono destinatari, in un corto circuito che ha raggiunto il culmine con il web 2.0. Se in un certo senso il medium è sempre stato il messaggio, ora questo è vero più che mai: l’obiettivo primario della connessione al Web ha cessato di essere la consultazione di risorse, per diventare la condivisione stessa: qualcosa di simile intendeva chi ha parlato della transizione da una rete di computer a una rete di persone.
Non per questo Internet ha cessato di svolgere la sua seconda funzione, quella di memoria pressoché indelebile dell’informazione che viene depositata. In buona parte, si tratta di un effetto ancora voluto e ricercato: digitalizzare e mettere in Rete significa di fatto ricordare, e una delle funzioni primarie della nostra costante connessione è quella di soccorrere in ogni momento la nostra memoria, impossibilitata a gestire la mole di dati con cui abbiamo a che fare. Così, i social network sono diventati i nostri album di famiglia, gli archivi cloud i nostri registri personali e professionali. Dall’altro lato, i problemi legati all’oblio in Rete sono figli della mancata presa d’atto della persistenza della Rete. La caratteristica più pregnante dell’ipertestualità è la ramificazione, e quindi la distribuzione dell’informazione attraverso mille, inarrestabili rivoli, che quando si tratta di recuperare il dato indesiderato diventano simili alle teste dell’idra di Lerna: l’eliminazione di uno non garantisce che non ne rinascano altre mille dalla stessa radice. Perché qui il medium non è puro canale, ma organo che trattiene ciò che trasporta, a prescindere che chi gli affida il carico ne sia o meno consapevole; è insieme il viaggio e la meta, la connessione e la conservazione.