Chi ci salverà dalle chat di Whatsapp? Domanda che ogni genitore con figlio in età scolare, ne sono certa, si pone quotidianamente più volte, prima di lasciarsi prendere dallo sconforto per l’ennesima invasione di messaggi non sempre pertinenti, inviati nei gruppi scolastici costituiti originariamente come strumento informativo. La straripante inutilità di questa dinamica mi ha convinta, qualche tempo fa, ad abbandonare del tutto l’app, forse più come atto dimostrativo che come effettivo stratagemma di sopravvivenza (morta un’app, se ne fa un’altra, e il problema si ripropone con nuove chat). Il punto tuttavia è più generale: e devo a Roberto Bernabò un bello scambio, nato sul commento a un altro articolo, che mi ha condotto a qualche riflessione ulteriore. Il problema sollevato da Roberto era lo stesso: la relazione perversa tra una dilagante quantità di dati e un contenuto conoscitivo poverissimo, apparentemente propria di tutta la sfera social.
La mia risposta tentava di dissociare informazione e conoscenza: anche dati apparentemente privi di valore conoscitivo rappresentano un elemento di positivo contributo informativo per chi tenti, in Rete e non solo, di ricostruire un quadro sensato. Il fatto stesso di condividere un contenuto qualsiasi rappresenta di per sé un’informazione utile da registrare e prendere in considerazione per chi voglia dedicarsi a una lettura storico-critica dei fenomeni digitali, passando dal livello dell’utilizzo a quello della riflessione. In quest’ottica, il medium è di per sé il messaggio: valeva tanto per le pitture rupestri quanto per i meme digitali. Il fatto stesso che esistano numerose riproduzioni dello stesso contenuto (non a caso Lanier lamenta che Internet sia diventato il regno del mashup), apparentemente incapaci di aggiungere conoscenza al dato originario, è però un elemento potenzialmente in grado di aggiungere un tassello all’interpretazione del contesto in cui si colloca. E’ a questa intepretazione che dobbiamo chiedere di esprimere un valore conoscitivo, che il dato irriflesso di per sé potrebbe non garantirci.
Roberto suggeriva di puntare a un “distillato di conoscenza” effettivamente inedita, che, nel sovraffollato contesto digitale, sarebbe il risultato del discrimine tra dati in grado di apportare un contributo e mere duplicazioni; cita a questo proposito il tentativo di Google con il suo algoritmo di ricerca, indirizzato in modo da privilegiare le fonti più autorevoli. E in effetti, ripensandoci: potrebbe l’intelligenza artificiale venire in soccorso di quella naturale per discriminare non solo l’originale dalle copie, ma l’informazione dal ciarpame? Tornando al mio controverso rapporto con WhatsApp, invece di abbandonarlo avrei potuto prefiggermi l’obiettivo di addestrare e perfezionare un algoritmo che selezionasse per me i messaggi, in modo da portare alla mia attenzione solo quelli rilevanti. Ma se per quel che riguarda un qualsiasi individuo (in questo caso, il disperato genitore alle prese con il gruppo classe) la distinzione tra contenuto qualificante in termini conoscitivi e contenuto da scartare è relativamente semplice, quanto meno in termini di requisiti originari (salta i messaggi che parlano di come incartare i libri, tieni quelli in cui si segnalano le nuove circolari), la stessa cosa potrebbe non essere altrettanto lineare abbandonando il livello individuale per ascendere a quello collettivo (restando al medesimo esempio, molti altri genitori sono sinceramente interessati alle altrui esperienze sui libri da incartare).
Se dovessimo delegare a un’intelligenza artificiale opportunamente addestrata il compito di discriminare i post più autorevoli su un social network (Linkedin, per esempio), dovremmo anzitutto condividere e consolidare una nozione di autorevolezza, da formalizzare e inculcare al sistema: nozione che di sé non equivarrebbe necessariamente a quella di qualità (ce lo hanno insegnato i tanti casi di autorevoli “maestri” dediti al copia&incolla), e che ci imporrebbe di adottare correttivi ulteriori per tenere aperta la possibilità che un contributo possa venire da utenti secondari, perfino involontariamente. l’eventuale ruolo di una AI esce definitivamente di scena se varchiamo la sfera gnoseologica per entrare in quella etica. Roberto suggeriva l’opportunità di allenarci a una disciplina del digitale, per diventarne cittadini pienamente consapevoli e utilizzarlo in modo da farne un vero strumento di incremento della conoscenza. Ma anzitutto, se il senso di questa disciplina è più immediatamente comprensibile se si pensa a un social come Linkedin, rischia di diventare più sfuggente su Instagram, o TikTok, o Snapchat, solo per citarne alcuni. Di più: fare dell’adozione di comportamenti “virtuosi” un criterio per la presenza in Rete, se inteso in senso minimalistico, significherebbe poco di più che rispettare la netiquette e le norme generali di convivenza; mentre in senso massimalistico non si accorderebbe, temo, con la buona dose di spirito anarchico che da sempre, e per fortuna, anima la Rete (per dirla con Palazzeschi: e lasciateci divertire).
Torniamo quindi al punto. A me sembra che la cosa migliore, per sopravvivere alla marea di informazioni senza conoscenza, sia allenarsi a leggerle; considerando Internet, come il resto dei media (TV inclusa), un documento della nostra umanità, del quale da ricercatori possiamo cogliere il senso, senza smettere da utenti e navigatori di esercitare questa stessa umanità, nel rispetto di tutti, dentro così come fuori dalla Rete.
Chi ci salverà dalle chat di Whatsapp? Domanda che ogni genitore con figlio in età scolare, ne sono certa, si pone quotidianamente più volte, prima di lasciarsi prendere dallo sconforto per l’ennesima invasione di messaggi non sempre pertinenti, inviati nei gruppi scolastici costituiti originariamente come strumento informativo. La straripante inutilità di questa dinamica mi ha convinta, qualche tempo fa, ad abbandonare del tutto l’app, forse più come atto dimostrativo che come effettivo stratagemma di sopravvivenza (morta un’app, se ne fa un’altra, e il problema si ripropone con nuove chat). Il punto tuttavia è più generale: e devo a Roberto Bernabò un bello scambio, nato sul commento a un altro articolo, che mi ha condotto a qualche riflessione ulteriore. Il problema sollevato da Roberto era lo stesso: la relazione perversa tra una dilagante quantità di dati e un contenuto conoscitivo poverissimo, apparentemente propria di tutta la sfera social.
La mia risposta tentava di dissociare informazione e conoscenza: anche dati apparentemente privi di valore conoscitivo rappresentano un elemento di positivo contributo informativo per chi tenti, in Rete e non solo, di ricostruire un quadro sensato. Il fatto stesso di condividere un contenuto qualsiasi rappresenta di per sé un’informazione utile da registrare e prendere in considerazione per chi voglia dedicarsi a una lettura storico-critica dei fenomeni digitali, passando dal livello dell’utilizzo a quello della riflessione. In quest’ottica, il medium è di per sé il messaggio: valeva tanto per le pitture rupestri quanto per i meme digitali. Il fatto stesso che esistano numerose riproduzioni dello stesso contenuto (non a caso Lanier lamenta che Internet sia diventato il regno del mashup), apparentemente incapaci di aggiungere conoscenza al dato originario, è però un elemento potenzialmente in grado di aggiungere un tassello all’interpretazione del contesto in cui si colloca. E’ a questa intepretazione che dobbiamo chiedere di esprimere un valore conoscitivo, che il dato irriflesso di per sé potrebbe non garantirci.
Roberto suggeriva di puntare a un “distillato di conoscenza” effettivamente inedita, che, nel sovraffollato contesto digitale, sarebbe il risultato del discrimine tra dati in grado di apportare un contributo e mere duplicazioni; cita a questo proposito il tentativo di Google con il suo algoritmo di ricerca, indirizzato in modo da privilegiare le fonti più autorevoli. E in effetti, ripensandoci: potrebbe l’intelligenza artificiale venire in soccorso di quella naturale per discriminare non solo l’originale dalle copie, ma l’informazione dal ciarpame? Tornando al mio controverso rapporto con WhatsApp, invece di abbandonarlo avrei potuto prefiggermi l’obiettivo di addestrare e perfezionare un algoritmo che selezionasse per me i messaggi, in modo da portare alla mia attenzione solo quelli rilevanti. Ma se per quel che riguarda un qualsiasi individuo (in questo caso, il disperato genitore alle prese con il gruppo classe) la distinzione tra contenuto qualificante in termini conoscitivi e contenuto da scartare è relativamente semplice, quanto meno in termini di requisiti originari (salta i messaggi che parlano di come incartare i libri, tieni quelli in cui si segnalano le nuove circolari), la stessa cosa potrebbe non essere altrettanto lineare abbandonando il livello individuale per ascendere a quello collettivo (restando al medesimo esempio, molti altri genitori sono sinceramente interessati alle altrui esperienze sui libri da incartare).
Se dovessimo delegare a un’intelligenza artificiale opportunamente addestrata il compito di discriminare i post più autorevoli su un social network (Linkedin, per esempio), dovremmo anzitutto condividere e consolidare una nozione di autorevolezza, da formalizzare e inculcare al sistema: nozione che di sé non equivarrebbe necessariamente a quella di qualità (ce lo hanno insegnato i tanti casi di autorevoli “maestri” dediti al copia&incolla), e che ci imporrebbe di adottare correttivi ulteriori per tenere aperta la possibilità che un contributo possa venire da utenti secondari, perfino involontariamente. l’eventuale ruolo di una AI esce definitivamente di scena se varchiamo la sfera gnoseologica per entrare in quella etica. Roberto suggeriva l’opportunità di allenarci a una disciplina del digitale, per diventarne cittadini pienamente consapevoli e utilizzarlo in modo da farne un vero strumento di incremento della conoscenza. Ma anzitutto, se il senso di questa disciplina è più immediatamente comprensibile se si pensa a un social come Linkedin, rischia di diventare più sfuggente su Instagram, o TikTok, o Snapchat, solo per citarne alcuni. Di più: fare dell’adozione di comportamenti “virtuosi” un criterio per la presenza in Rete, se inteso in senso minimalistico, significherebbe poco di più che rispettare la netiquette e le norme generali di convivenza; mentre in senso massimalistico non si accorderebbe, temo, con la buona dose di spirito anarchico che da sempre, e per fortuna, anima la Rete (per dirla con Palazzeschi: e lasciateci divertire).
Torniamo quindi al punto. A me sembra che la cosa migliore, per sopravvivere alla marea di informazioni senza conoscenza, sia allenarsi a leggerle; considerando Internet, come il resto dei media (TV inclusa), un documento della nostra umanità, del quale da ricercatori possiamo cogliere il senso, senza smettere da utenti e navigatori di esercitare questa stessa umanità, nel rispetto di tutti, dentro così come fuori dalla Rete.