Una necessaria premessa. Sono stata una sostenitrice dello smartworking quando questa parola non esisteva ancora. Nel 2009, affrontando il nodo mai risolto della conciliazione tra desiderio familiare e impegno lavorativo, mi ero accontentata di parlare di “delocalizzazione” per tentare di distinguere una modalità nuova, diversa dal già noto telelavoro, caratterizzata dalla rimozione del vincolo della presenza in ufficio, e dall’ancoraggio della retribuzione a fattori diversi – il raggiungimento degli obiettivi, anzitutto -, che avrebbe premiato la vera produttività invece che la mera visibilità.
Negli anni successivi, grazie anche all’esperienza diretta, mi è divenuto più chiaro che non si trattasse solo di spazio, ma di tempo; e insieme di libertà, e di responsabilità, come sempre inscindibilmente connesse. Ancora, grazie alle riflessioni condotte in un illuminato team di lavoro – condotto da Mario Di Loreto -, ho imparato che gli ingredienti magici per questo incantesimo – la digitalizzazione e la connettività diffusa – erano gli stessi che animavano la più recente rivoluzione industriale, la quarta, di cui la trasformazione delle modalità organizzative del lavoro faceva parte integrante. Contemporaneamente, ho visto l’idea del “lavoro agile” – ancora un nuovo nome – prendere vita grazie al lavoro infaticabile di professionisti tutt’altro che tifosi o utopisti, che hanno portato quella che sembrava una battaglia persa in partenza a diventare una realtà diffusa e persino materia legislativa.
Tutto questo fino al momento in cui irrompe una pandemia: costringendo al distanziamento e alla reclusione domestica milioni di lavoratori, sconvolgendo organizzazioni, ritmi e assetti consolidati. Come ha ben sottolineato Luca Pesenti, non di smartworking stiamo parlando, ma di un’emergenza che rende impossibili spostamenti e convivenza, e richiede necessariamente l’adozione del lavoro da remoto come misura massiva. E qui comincia la guerra: nei mesi di lockdown, si è levata all’unisono la lode per essere riusciti a scongiurare il blocco delle attività grazie a un modo di lavorare vantaggioso – anche economicamente – per i lavoratori, benefico per l’ambiente, oltre che acceleratore di produttività per le aziende. Ma nel momento in cui è stato percepito un allentamento dell’allarme, si sono fatti avanti i primi critici, con obiezioni che spaziano dalla socialità perduta alla crisi dell’indotto – principalmente di fornitori di servizi di ristorazione, di trasporti e di locazione.
I sostenitori vedono negli argomenti dei detrattori un pretesto per riproporre, nella sostanza, le solite vecchie obiezioni: quelle di imprenditori e manager che, come ha ben spiegato Marco Bentivogli nel suo “Indipendenti”, in mancanza di obiettivi chiari che non sono stati in grado di fissare e misurare continuano a regolarsi sull’obsoleto modello noto come “command&control”, in assenza di qualsiasi riscontro sulla sua reale efficacia, e soprattutto di un rapporto di fiducia reciproca tra datore di lavoro e dipendente. I detrattori etichettano i sostenitori come “fannulloni” o “imboscati”, – soprattutto quando si parla di lavoro nelle pubbliche amministrazioni -, mettendo quindi in discussione non solo il presunto incremento di produttività, ma l’esistenza stessa di una qualsiasi produzione. Le due fazioni si fronteggiano di fronte a una sparuta minoranza di “realisti”, che non smettono di sottolineare come il “vero” lavoro agile sia ben altro che semplice reclusione domestica, e che in mancanza di una vera trasformazione organizzativa non si fa che riprodurre proprio quello stesso modello di controllo, trasferito in remoto.
Per uscire dall’impasse, provo ad affidarci al caro vecchio liberalismo – e al suo parente stretto, l’ormai vituperato liberismo. Per iniziare dai detrattori, l’argomento che vorrebbe i lavoratori rientrare nei loro uffici per il bene dell’indotto somiglia al tentativo di promuovere le carrozze, all’introduzione del motore a scoppio, in nome dei poveri allevatori di cavalli da traino. Non si tratta di negare il problema, ma di accettare l’evidenza della trasformazione; diversamente, si perde completamente di vista il mercato, che, mentre archivia il tramezzino a dodici euro o la stanza in subaffitto a seicento euro, in un’epoca di ufficio diffuso e di spazi urbani da reinterpretare chiede a gran voce un’offerta di servizi diversi. Lo sanno, per esempio, i creatori delle app come Nibol, che propongono agli smartworkers spazi di lavoro in bar, ristoranti, locali e persino abitazioni private – proprio gli stessi penalizzati dal dietro-front dei consumi da pausa pranzo e da affitto -, e così facendo offrono un’opportunità ai gestori più lungimiranti. Questa è innovazione: intercettare e valorizzare una domanda in trasformazione. E in questa direzione, mutatis mutandis, bisognerebbe ragionare anche quando invece che di singoli esercizi o comparti si tratta di analizzare la trasformazione – altrettanto inevitabile e evidente – dell’intero scenario urbano, per essere abbastanza lungimiranti da ridisegnarlo in un’ottica liberale.
Una buona iniezione di liberalismo farebbe bene anche a chi oggi tifa per l’introduzione di un obbligo cogente di adozione del lavoro da remoto, che vincoli anche i datori di lavoro più resistenti ad adottare la nuova modalità organizzativa sempre e comunque. Il rischio, ben evidenziato da pionieri come Arianna Visentini, è quello di ingessare un istituto che trova la sua ragion d’essere, come si diceva poco fa, nel rapporto di fiducia reciproca tra lavoratore e datore di lavoro, e che quindi vede la sua ideale espressione in una contrattazione a livello aziendale e territoriale, invece che in una dimensione burocratica e forzata. Questa prospettiva riesce senz’altro sgradita a quella parte del sindacalismo italiano (non a caso tra i detrattori del lavoro agile), abituato ai riti del secolo scorso e restio ad abbandonarne gli stilemi, ma anche agli imprenditori meno dinamici, per i quali la richiesta di poter lavorare in modalità agile avanzata da un candidato all’assunzione è una buona ragione per archiviarne il CV nella carta straccia. Anche qui, siccome liberalismo e liberismo vanno a braccetto, sarà il mercato a fare giustizia: lo stesso che già oggi assegna chiaramente un vantaggio competitivo alle aziende che hanno accolto a pieno titolo lo smartworking tra gli strumenti della buona organizzazione. Mentre c’è ancora chi crede di acquistare titoli di merito presso mercato e azionisti vantando il proprio scetticismo e l’irremovibilità verso il “telelavoro”, queste aziende, che giustamente promuovono la scelta in ottica di employer branding, sono già oggi premiate in termini di capacità di attrazione per i migliori talenti.
Una variante interessante delle obiezioni riguarda la difficoltà di generalizzare la disciplina del lavoro agile a tutti i mestieri, che non solo basterebbe di per sé a ridimensionare (e quindi minimizzare) il fenomeno, ma sarebbe potenzialmente generatrice di odio sociale verso i “privilegiati” smartworkers da parte dei meno fortunati che non possono beneficiare della remotizzazione. Un rischio senz’altro da considerare e da gestire: la domanda è se sia sufficiente a giustificare l’archiviazione dell’opportunità per chiunque possa avvalersene. Oltre al fatto che, grazie alla disponibilità di tecnologie come il 5G e l’Internet of Things esistono già occupazioni impensabili che è possibile svolgere da remoto – il minatore, per esempio -, e che grazie all’automazione avanzata il bacino è destinato ad allargarsi sempre di più, il tema fondamentale resta ancora una volta di approccio. Il fatto che il lavoro agile non sia per tutti significa di per sé che non deve essere per nessuno? Siamo certi di voler abbracciare, ai tempi dell’Industria 4.0, la stessa ottica collettivistica e massificante dello one size fits all fordista? Senz’altro pensare in maniera plurale e sfaccettata è sempre più difficile; questo vale anche, e soprattutto, quando si tratta di un mondo sempre meno generalizzabile, standardizzabile, uniformabile come quello del lavoro.
A fronte di quest’ultima riflessione vale la pena di riconsiderare anche l’obiezione ancora viva, la più forte, quella dei realisti: pensiamo sia smartworking, ma in realtà è un calesse, e pure traballante. Il che è innegabile, e tuttavia inevitabile, se non vogliamo anteporre la necessità di codificare e definire canonicamente la modalità organizzativa a quella di seguire e anzi incarnare la trasformazione. E’ qui che un approccio liberale dà a mio parere il meglio di sé. Perché il lavoro agile sia realmente tale, basta rispettare la cara vecchia massima liberale: tutto ciò che non è vietato, è consentito. Vale a dire: se non ci sono condizioni ostative, in qualsiasi modo sia possibile mettere tra parentesi spazio e tempo, esercitando la propria libertà congiunta alla responsabilità sulle proprie attività, lo si faccia. Invece di vedere tutto bianco o nero, a blocchi orari, a comparti, a settori, a gruppi, si realizzi quanto complessa sia l’odierna realtà del lavoro, e quanta intelligenza occorra per affrontarla di volta per volta. Invece di elencare puntigliosamente prerequisiti, regole, eccezioni, attenuanti, varie ed eventuali basta fissare pochi, chiari limiti, e consentire tutto il resto. Laissez faire, laissez passer.