Mettiamocelo una buona volta in testa, noi addetti ai lavori, noi che parliamo correntemente, come niente fosse, di video on demand, di OTT, di social TV, di PVR, di anytime-anywhere, di Netflix, Hulu, Lovefilm e chissà cos’altro. Noi pionieri, noi che per primi abbiamo toccato, esplorato e già sondato in tutti i suoi recessi la “new TV”, questa Terra Incognita, lo dimentichiamo spesso: per chiunque altro, il concetto stesso che la televisione possa essere “nuova”, che stia diventando – sia già diventata – altro che un soprammobile (ingombrante, lussuoso, amichevole, fastidioso, divertente, indifferente), è tutt’altro che acquisito.
Il rischio è che ogni nostro slancio innovativo in questo campo, al di là del suo intrinseco valore, veda seriamente compromessa la possibilità di atterrare, mettere radici, diventare pratica familiare – nel doppio senso della familiarità, e dell’esperienza domestica e collettiva di visione. Nella prefazione ad un libro pubblicato di recente (“A tutta TV”, della giornalista Margherita Acierno), Alberto Abruzzese scrive: “finito il mondo [della televisione], non sono finiti i suoi affezionati abitanti. Si stanno spingendo a popolare Internet ma portano con sé le proprie radici. A usare le reti digitali e le magnifiche possibilità della loro connettività e interattività, c’è un utente dotato ancora di memorie e desideri televisivi”.
Come parlare a questo utente? Che linguaggio utilizzare, perché non suoni inutilmente avveniristico o addirittura non lo intimorisca, finendo per allontanarlo? Come spiegare questa nuova TV a chi la guarda, o almeno vorrebbe provarci? Uno dei compiti più ardui che ci attende, forse più arduo ancora dell’innovazione, è la divulgazione. O meglio, per dirla con Roger Silverstone, la “domestication”: un’introduzione graduale all’accoglienza della novità. Che si tratti di guardare due schermi insieme invece che uno solo, di selezionare i contenuti uno per uno sfidando la “fatica della scelta”, o di superare l’idea dell’”appuntamento” in palinsesto, lasciando che sia il programma desiderato a raggiungere lo spettatore e non il viceversa.
Non possiamo limitarci a immaginare, sviluppare, realizzare la nuova TV: dobbiamo condurre i suoi spettatori per mano, passo passo, in un territorio per loro ancora sconosciuto. Per definire il libro di Acierno, Abruzzese richiama Gregory Bateson quando parla di una “mappa” che è anche un “territorio”: una serie di “indicazioni”, che allo stesso tempo richiedono “immediata partecipazione”. Un po’ quello che succede nella vita di tutti i giorni, in cui il ricettario dei dolci o le istruzioni della lavatrice finiscono per essere le letture top in casa, mentre ponderosi e autorevoli volumi rimangono a impolverarsi in libreria a tempo indeterminato. E non c’è nulla di male: abbiamo bisogno di coinvolgenti narrazioni almeno quanto di “istruzioni per l’uso”, di vati e visionari almeno quanto di guide e ciceroni. Che magari, puntando il dito verso il sentiero, invoglino gli escursionisti a ripercorrere i passi dei pionieri e a sobbarcarsi la salita, per godersi infine l’incantevole panorama.