Dopo aver mietuto le previste vittime in Francia, prima nazione ad averlo adottato sotto gli auspici di Sarkozy, e dopo essere approdato in Spagna, dove potrebbe essere approvato definitivamente nell'estate, il provvedimento che abolisce la pubblicità dalla televisione pubblica si affaccia anche in Italia.
Non è certo una novità: già al suo esordio, la notizia aveva scatenato svariati commenti, tra i quali si erano distinti quelli favorevoli alla radicale trasformazione che ne sarebbe derivata per una RAI alla ricerca di una nuova anima. Ma la notizia sta nel fatto che stavolta, a farsi portavoce dell'idea, è il ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi, e lo fa addirittura citando Dario Franceschini; del resto, il ministro non è nuovo a simili mani tese agli esponenti dell'opposizione, non di rado rispedite al mittente. E così anche stavolta, alla proposta di seguire le orme francesi e spagnole, invece che un plauso è arrivata una replica piuttosto scoraggiante dal PD, che ha invitato il ministro a preoccuparsi piuttosto dell'informazione in campagna elettorale.
A stretto rigore, tuttavia, non è Bondi a doversene occupare; e sarebbe meglio se evitasse di farsi carico del ruolo della televisione pubblica in quanto detentore di un dicastero "culturale". L'equivoco che coinvolge i mezzi di comunicazione di massa in Italia sta tutto qui: un malinteso senso di "cultura", legato a una concezione pedagogica e didascalica del piccolo schermo, accompagna da tempo la demonizzazione del patrimonio dell'immaginario che la nostra televisione ha consolidato nel tempo, e che la distingue dalle sue concorrenti non soltanto europee (è quanto meno singolare, tra l'altro, che una simile concezione venga rispolverata proprio da un ministro dell'esecutivo capeggiato dall'imprenditore che questo patrimonio ha inaugurato).
Una distinzione che rischierebbe di naufragare sotto i colpi di provvedimenti come quello auspicato da Bondi, che com'è noto, lungi dal premiare le emittenti che hanno interessato, le hanno danneggiate in termini di audience, senza per questo innescare l'atteso circolo virtuoso degli investimenti pubblicitari (eliminati, invece di essere dirottati su altri canali). Di più: in Spagna, come in Francia, a dover pagare il fio dell'iniziativa sono stati i media innovativi, gravati di tasse destinate a compensare le mancate entrate della televisione di Stato (e spesso rovesciate sui consumatori). Con il risultato di scatenare un'indebita disputa tra cultura e innovazione, nella quale il vincitore non è affatto scontato.