Da anni ormai, parlando di media, ci siamo abituati ad aggiungere l’aggettivo “digitale” per circoscrivere un ambito che tuttavia si allarga sempre più (e non solo per la TV, con il passaggio al DTT), e che è sempre meno facile delimitare con precisione. Abbiamo imparato a definire, e cercare di distinguere, una “cultura digitale“, anche in questo caso per caratterizzarla, proprio mentre i suoi tratti essenziali permeavano sempre più ogni aspetto della nostra vita, della nostra comprensione del mondo e della nostra azione in esso. Fronteggiamo ora una “trasformazione digitale“, che coinvolge economia, industria, tecnologia e società, e pone le premesse per fenomeni come la produzione di massa customizzata, grazie alle stampanti 3D e all’Internet delle cose.
Il “digitale”, insomma, è tutt’altro che una novità, malgrado si continui ad accompagnarlo a sostantivi destabilizzanti come disruption, revolution, al minimo transformation e simili: ciò che peraltro è a sua volta divenuto abituale, nella registrazione e nella concettualizzazione dei cambiamenti, da almeno un ventennio a questa parte. Ma davvero a questo punto, c’è ancora bisogno di precisare che si parla di “digitale”? Più che aggiungere conoscenza all’espressione cui si accompagna, l’aggettivo comincia a sembrare ridondante: un po’ come nel caso del “mobile Internet”, che già da qualche tempo appare sovrabbondante (lo ha segnalato ad esempio Benedict Evans, lo confermano mese dopo mese anche per l’Italia i dati Audiweb). Basti pensare che la maggior parte del traffico in Rete è generato da dispositivi mobili, e i ricavi si comportano di conseguenza, con il 79% delle entrate da advertising di Facebook – per citare un esempio emblematico – che provengono dal mobile.
Allo stesso modo, l’impressione è che il termine “digitale” sarà sempre più diffuso e generalizzato, e sempre meno distintivo: che l’odierna inflazione del termine sia destinata a calmarsi in breve, quando l’accelerazione di utilizzo alla quale assistiamo avrà raggiunto il suo picco, e tutto il precipitato della nozione si sarà depositato sul fondo del pop quotidiano. A quel punto, sarà forse ovvio che a definire l’identità di ciascuno di noi concorrano le esperienze e le informazioni, diffuse in Rete, almeno quanto quelle diffuse e osservate tramite qualsiasi altro canale, e che il modo più efficace per riassumere le une e le altre ai fini pubblici sia uno strumento “digitale”. A quel punto, l’agenda “digitale” apparirà nella sua essenza di ambiziosa tabella di marcia per lo sviluppo, a tappe certamente ravvicinate e forse anche forzate, che non sarebbero neppure concepibili senza informatizzazione e connessione diffuse. Sempre a quel punto, sarà talmente scontato che siano “digitali” le competenze necessarie per affrontare un mercato del lavoro sempre più dinamico, flessibile e estraneo alle odierne limitazioni di spazi e tempi, che sembrerà strano a chiunque doverlo specificare. E per allora, parafrasando Dalla, io mi sto preparando: è questa, semmai, la novità.
UPDATE/1: Anche Suzy Deering, CMO di eBay, intervenuta al Forrester Research’s Marketing 2016 Forum, è d’accordo: “Isn’t everything digital?”