Gli ultimi risultati dichiarati dalle big della TV statunitense non sembrano lasciare dubbi: il cord cutting, la fuga dagli abbonamenti al cavo e al satellite, è più che mai vivo e lotta contro un’industria un tempo fiorente. Secondo i dati di MoffettNathanson, la perdita complessiva di abbonati nel primo trimestre dell’anno raggiunge le 762mila unità: il peggior risultato di sempre. Il calo diventa ancora più significativo, raggiungendo quasi il milione di abbonamenti, se si aggiungono i clienti che, cambiando casa per qualche motivo, hanno scelto di non confermare la propria sottoscrizione: ma bisognerebbe allora tenere conto anche di chi, disdicendo l’abbonamento, ha preferito l’opzione “light” offerta dallo stesso gestore (ad esempio, la Sling TV dell’operatore satellitare Dish Network), il che farebbe di nuovo calare leggermente la cifra.
Ma basta davvero a chi cessa il suo abbonamento TV sottoscriverne uno nuovo a un servizio di video on demand? Si tratta davvero di un’opzione sostitutiva, in grado di soddisfare il fabbisogno di intrattenimento televisivo di una famiglia? Com’è già stato autorevolmente notato, i migliori contenuti video – che si tratti di serie TV o di film – disponibili su piattaforme digitali in streaming sono oggi dispersi tra i grandi player del mercato: per annoverare nel proprio portafoglio di intrattenimento domestico allo stesso tempo la quinta stagione di House of Cards, la terza stagione di Catastrophe e magari anche la nuova stagione di The Path, bisogna essere abbonati sia di Netflix che di Amazon Prime Instant Video e Hulu – i quali pur di strappare spettatori ai relativi concorrenti hanno investito nelle produzioni originali, con il risultato di parcellizzare il panorama della fruibilità complessiva di contenuti video.
E’ la concorrenza, bellezza: in fondo, anche nel mercato della musica digitale lo scenario non è dissimile, con le esclusive e le anteprime delle nuove release sempre più contese tra Spotify, Apple Music, Tidal e gli altri attori impegnati a strapparsi l’uno con l’altro l’ultimo singolo dell’artista del momento. Non si tratta di un fenomeno nuovo per la pay-TV, dovunque ci sia un mercato che funziona: ma se in passato gli abbonati alla TV via cavo o via satellite erano costretti a una scelta di fondo, rinunciando in partenza all’idea di assommare una o più offerte televisive per via dei costi proibitivi, oggi si apre dinanzi a loro la nuova possibilità di “collezionare” i servizi SVOD (subscription video on demand), l’uno accanto all’altro, per essere sicuri di riuscire a vedere tutti i loro film, telefilm e cartoni animati preferiti, a un prezzo che non supera quello di una media offerta televisiva tradizionale. Il confronto con quest’ultima sarebbe comunque vinto, in nome della flessibilità e della mancanza di vincoli che in massima parte contraddistingue un mercato non ancora incentrato sulla fidelizzazione (talvolta forzata) dello spettatore. Il quale tuttavia, proprio grazie a questa flessibilità, preferisce disdire l’abbonamento a un servizio appena quello concorrente lancia una nuova serie TV che non intende perdersi (e resta abbonato a quest’ultimo finché non ne spunta una nuova su una terza piattaforma, o sulla prima…).
Questo scenario produce due interessanti sviluppi, uno già in atto, l’altro tutto da immaginare: il primo coincide con la trasformazione dei servizi SVOD in veri e propri pacchetti di canali TV – proprio come accade con la IPTV – ma, a differenza di quest’ultima, non vincolata a un operatore di telecomunicazioni, la cui rete resta sullo sfondo mentre tutta l’offerta di contenuti continua a viaggiare “over-the-top“, sulla sua testa. La TV live è l’ultima novità dell’offerta di Hulu, che ha appena lanciato un servizio nient’affatto diverso – anche nel prezzo – da quello garantito da un normale abbonamento televisivo a pagamento, che include naturalmente anche lo SVOD: una strategia che punta tra l’altro sullo sport, chiave del successo della diretta video, per diventare unici, insostituibili, e magari pure non accompagnabili ad altri. I quali potrebbero a loro volta seguire le orme di Hulu (e di YouTube, che con la sua TV ha già debuttato nell’offerta live il mese scorso).
Oppure, potrebbe accadere che qualcuno – magari qualcuno dei players già in gioco – si ponga il problema dello spettatore che desidererebbe più di ogni altra cosa riuscire a vedere tutti i suoi contenuti preferiti (o poter scegliere tra tutti i cataloghi di contenuti disponibili), senza dover gestire cinque abbonamenti on demand diversi. Un bisogno che diventa più urgente, e spinge ancor di più all’infedeltà, con il diradarsi delle produzioni originali salutate come imperdibili, capaci di trattenere o riportare all’ovile l’abbonato fuggito: qui il bisogno dello spettatore diventa l’allarme del player SVOD. E allora, l’ipotetico soggetto – potrebbe trattarsi di un soggetto locale, che agisca su un solo territorio, nel quale le issue negoziali sui contenuti siano già state affrontate e risolte – potrebbe tentare di forzare nuovamente una catena del valore ormai già seriamente messa alla prova, aprendo uno spiraglio che, con le leve opportune, potrebbe diventare un vero e proprio business: uno SVOD degli SVOD, che invece di aggregare canali live aggreghi le offerte video in streaming già disponibili, offrendo loro la possibilità non tanto di guadagnare nuovi clienti (i quali sarebbero probabilmente stati attratti a prescindere, pur disdicendo l’abbonamento alla comparsa della nuova serie TV di grido sulla piattaforma alternativa), ma soprattutto di trattenerli, rallentando la fatale rincorsa all’ultimo abbonato, in uno scenario tipico di un mercato più maturo. Quale oggi probabilmente non è ancora, e non sarà forse neppure domani: ma potrebbe esserlo dopodomani.