Dopo aver visionato ieri sera il film TV "Cocaina", andato in onda su Rai Tre, del quale l’ex ministro delle Comunicazioni Gasparri aveva detto tutto il male possibile, mi è piuttosto difficile capire la sua posizione. Va premesso che non mi considero tra i detrattori del suo operato ministeriale, salvo nutrire qualche perplessità dopo avergli sentito affermare che la legge che porta il suo nome lui l’aveva persino "letta tutta". A maggior ragione non mi spiego perché, a suo dire, il programma (a partire dallo spot promozionale) avrebbe rappresentato una vera e propria pubblicità per lo stupefacente. La mia impressione è invece che tutto il film – girato in presa diretta con una regia e una fotografia estremamente interessanti, per essere in TV – sortisca esattamente l’effetto opposto.
Il film di Burchielli e Parissone è un prodotto di grande qualità, dalla narrazione appassionante e coraggiosa, in grado di mostrare i punti critici del problema senza indulgenze né retorica. I complimenti vanno non solo alla troupe, che si è infiltrata tra i poliziotti, gli spacciatori e i consumatori, ma soprattutto alle forze dell’ordine, il cui ruolo, come traspare dal documentario, è più che meritorio (ciò che avrebbe dovuto far piacere a Gasparri, anziché indispettirlo).
I poliziotti seguiti nella loro nottata a caccia di cocainomani (tanto vittime quanto carnefici) sono infatti personaggi moderni, che più nulla hanno a che fare con i brigadieri panzuti e baffuti dei luoghi comuni: più facile confonderli con i frequentatori dei centri sociali che con i protagonisti delle fiction poliziesche da prima serata, e non è un caso. Probabilmente sottopagati come la maggior parte dei loro colleghi, questi agenti sacrificano vita e famiglia a un’esistenza da nottambuli forzati, svolgendo un lavoro eccellente: non solo conoscono perfettamente usi e abitudini dei loro obiettivi, mettendo a punto tecniche efficaci per agganciarli, ma nel corso del film sono stati in grado di mostrarli con la massima evidenza alle telecamere, con domande mirate e intelligenti (ma anche spiritose) ai soggetti fermati (ignari di venire ripresi); insomma, roba che nemmeno certi sedicenti giornalisti.
Il mondo della cocaina, come risulta dal racconto di Burchielli e Parissone, è un universo tutt’altro che monocorde e prevedibile; ormai trasversale rispetto alle classi sociali e allo status civile, ma non per questo innocuo, tanto dal punto di vista sanitario che da quello economico. Ad accomunare i suoi abitanti c’è la scarsa percezione della dipendenza (per i consumatori) e del reato (per gli acquirenti e gli spacciatori): come se "pippare" o spacciare "bamba", specialmente se in modo sporadico, non fosse poi così grave o anormale. Tra gli intervistati, spiccano i muratori, gli operai, i volti insomma di quell’Italia che fatica ad arrivare a fine mese; gente che si lamenta della paga, ma poi sperpera il poco denaro guadagnato per acquistare droga; gente i cui sogni e desideri si aprono su vite tranquille, di ordinario tenore borghese, in cui mogli, figli, lavoro e un ordinato benessere appaiono come il massimo che si possa desiderare.
Il film sfiora appena l’argomento dell’incidenza dell’abuso di stupefacenti sulle morti bianche, ma è quanto basta per sollevare il dubbio e spalancare una prospettiva avvilente, specialmente in questi giorni di lutto per il gravissimo incidente occorso alla ThyssenKrupp. Anche in questo caso, quindi, nessuna retorica proletarista, ma uno sguardo attento anche sui risvolti più impopolari. Il dubbio mi resta: ma Maurizio Gasparri, questo documentario, l’avrà visto?