Mi aspettavo molto dal nuovo film in presa di retta trasmesso da Rai Tre, dedicato al problema della sicurezza. Forse troppo: avevo ancora in mente il bellissimo reportage "Cocaina", trasmesso a dicembre (se ne parlava qui), il quale – oltre ad affrontare senza cedimenti emotivi e reali dimensioni del problema, svelandone aspetti del tutto insospettati (come la diffusione tra i manovali e gli operai) – aveva presentato personaggi decisamente credibili, persino magnetici (come il poliziotto con il look da "fratello", bravo nel suo mestiere e di una simpatia assolutamente telegenica).
Nel documentario di ieri sera, al contrario, l’atmosfera è scivolata irrimediabilmente verso il patetico. Colpa senza dubbio della materia, inevitabilmente più delicata al tatto e maggiormente esposta al rischio del piagnisteo. Ma colpa anche della sceneggiatura meno robusta, che ha puntato tutto sullo stridente contrasto tra l’irritazione serpeggiante per gli illeciti dei ROM e la straziante realtà umana che si cela dietro ogni borseggio. Nulla, insomma, che potesse sconvolgere un pubblico già esasperato dagli argomenti della campagna elettorale, e quindi polarizzato nei due opposti campi tracciati dal documentario.
Il risultato di audience è stato conseguente – per quanto gli strumenti dell’Auditel non siano i più adatti a interpretare questo tipo di prodotti televisivi -: ai quasi due milioni e mezzo di spettatori di "Cocaina" hanno risposto ieri sera poco più di un milione e settecentomila sintonizzati. Sarà anche stato l’effetto Sanremo – dopo il quale migliaia di ascoltatori si sono precipitati a spegnere il televisore, ben decisi a non riaccenderlo prima di qualche mese -: ma se fossi negli autori una domandina su cosa si poteva raccontare in più, e meglio, me la porrei.