Puntuale come l'equinozio d'autunno, riecco alla ripresa della stagione televisiva la polemica sull'Auditel: che stavolta esplode a partire dalle parole di Dario Franceschini a commento di "Videocracy". E proprio come l'equinozio, la polemica è sempre la stessa: il metodo di rilevazione quantitativa è fuorviante, favorisce una televisione fondata sulla volgarità e sul pettegolezzo invece che sui contenuti, è complice della scomparsa del merito e della qualità dalla cultura nazionale, in favore dell'apparenza e della notorietà a tutti i costi.
Franceschini non è certo il primo a contestare l'Auditel, né a fare ricorso a simili argomenti. Molti ricorderanno ad esempio, Roberta Gisotti, che nel 2002 pubblicò un fortunato saggio, intitolato "La favola dell'Auditel". Contributi come quello della Gisotti hanno dato il "la" per immaginare strumenti diversi di monitoraggio e valutazione della programmazione televisiva: come il cosiddetto "Qualitel", che secondo l'ultimatum dell'Agcom alla Rai avrebbe dovuto essere varato entro agosto e che risulta ancora non pervenuto (any news?).
Eppure, chi si impegna a selezionare il peggio del nostro piccolo schermo, magari per poi attribuirne ogni colpa all'Auditel, trascura che la rilevazione quantitativa dell'audience non è un'esclusiva della TV italiana e dunque difficilmente potrebbe essere additata come causa di ogni suo presunto male. E se il servizio pubblico radiotelevisivo potrebbe dover prendere in considerazione tra i criteri del suo operato logiche diverse da quella puramente numerica, per la TV commerciale la quantificazione dei contatti da vendere agli inserzionisti pubblicitari resta fondamentale.
Più che l'Auditel, bisognerebbe allora riformare la struttura stessa del nostro etere: statalizzare la televisione privata, eliminare gli spot da quella pubblica; o magari rivalutare i nostri palinsesti, e dopo averli attentamente esaminati e paragonati alla programmazione dei network internazionali, coltivare il sospetto che a fronte del resto un Corona in mutande ogni tanto non sia poi una tragedia così insormontabile.