Diritti TV calcio: cose da grandi?

Ci sono due modi di leggere la sentenza con cui la corte d'Appello di Milano, accogliendo il ricorso dell'emittente Conto TV, ha vietato alla lega Calcio di assegnare a Sky i diritti TV satellitari delle partite di serie A e di proseguire nelle trattative per quelli della serie B. Uno è quello scelto dall'imprenditore Marco Crispino, patron dell'emittente, nonché dai suoi detrattori: vale a dire, il riconoscimento del diritto anche ai competitors minori a entrare nel mercato alle stesse condizioni offerte ai maggiori incumbent. Mentre Crispino interpreta, o propone di interpretare questa come un'opportunità da cogliere, anche attraverso il legame con soggetti più "robusti", i critici leggono nella sentenza l'ennesima battuta d'arresta inferta a un sistema che può reggere, anche a livello internazionale, solo se cresce. 

Il secondo modo è quello di ritornare all'origine del problema: la composizione dei pacchetti di diritti TV, dettata dal quadro disegnato dal decreto Melandri, che prevedeva la disciplina di vendita collettiva – per serie – al fine di tutelare le squadre minori. Ne avevamo parlato qualche tempo fa: se tutela dei minori deve essere, ha ora stabilito il tribunale di Milano, deve dunque esserlo per tutti, tanto le squadre, quanto le TV. Un principio apparentemente indiscutibile, che ha condotto tuttavia a interventi tanto netti quanto approssimativi nell'equilibrio di un mercato già di suo non limpido, senza riuscire per questo a garantirne il funzionamento.

Fino a quando dunque non verrà messa in discussione la stessa natura del "prodotto" – i pacchetti TV – che si è voluto artificialmente confezionare, sarà difficile stabilire se due soggetti dalle dimensioni e dal fatturato incomparabili abbiano uguale titolo ad accedere alla loro compravendita, come afferma Crispino, o se soltanto i players in grado di assicurare alla TV nazionale una qualità in grado di stare al passo con quella internazionale possano aggiudicarseli, come suona l'argomento dei suoi oppositori. La sentenza di Milano potrebbe essere l'occasione, a livello regolatorio e legislativo, per rivedere come in una dimostrazione per assurdo la premessa che rende entrambe queste conclusioni inaccettabili, e prendere in considerazione l'idea di rimuoverla per arrivare a un risultato ragionevole.