Il media è l’uso (con tanti saluti a Wittgenstein)

Qualche anno fa, chiacchierando (sia pure pubblicamente) con Luca, avevo paragonato il ruolo del telespettatore nello scenario disegnato dai nuovi media a quello di un personaggio pirandelliano: uno – come l'unico a poter decidere su quali e quante piattaforme televisive utilizzare -, nessuno – come la negazione di un semplice ingrediente di audience, di un semplice target da spot, di un semplice numero nella massa della TV di flusso -, e centomila – come la somma dei suoi interessi, delle sue attitudini, dei suoi momenti che diventano altrettante modalità di fruizione televisiva e occasioni d'uso.

Oggi, di fronte alle meraviglie di quella che negli States chiamano ormai "New TeeVee", mi sentirei addirittura di scomodare Wittgenstein, sia pure – come per Pirandello – nella sua versione meno filosofica e più sloganistica. Mi spiego meglio: da tempo mi arrovello alla ricerca di una possibile definizione di mass media, che sia abbastanza dinamica e allo stesso tempo abbastanza potente da rimanere utile pur nel contesto dei mutamenti repentini che continuano a susseguirsi in questo ambito.

Ho trovato utile in qualche caso pensare a una "ecologia dei media", trattando i diversi mezzi di comunicazione come i componenti di un ecosistema: sullo sfondo socioculturale, attori diversi e coesistenti di un processo che somiglia da vicino a un'evoluzione darwiniana, continua, lenta, fatta di infinitesime variazioni, selezionate infine da un utente le cui esigenze assurgono a unico criterio di successo. In qualche altro caso ho preferito orientarmi verso una sorta di strutturalismo riveduto e corretto, allineando sul paradigma delle componenti essenziali di ogni mezzo di comunicazione (dove la difficoltà sta appunto nel'individuare simili componenti: il che meriterebbe una discussione a parte, in gran parte già avvenuta) il sintagma del media effettivamente esistente. In entrambi i casi, si trattava di evitare come la peste l'ottica della "convergenza", o peggio ancora, della "sostituzione" tra media diversi, mai riducibili l'uno all'altro, e perciò stesso mai banalmente rimpiazzabili dall'ultimo arrivato.

Mi sentirei oggi di aggiungere un terzo modello, che apparentemente ribalta i primi due, in realtà potrebbe efficacemente completarli. Parafrasando la celebre summa della seconda fase della sua elaborazione di pensiero sul linguaggio, secondo la quale il "significato è l'uso", si potrebbe oggi dire che "il media è l'uso". Cosa è televisione e cosa no non dipende più
dal device, dalla rete, dai contenuti, dalla piattaforma, insomma da alcuno dei suddetti componenti paradigmatici: ma, decisamente, dal modello
di azioni e fruizioni di un spett-attore sempre più artefice del proprio destino.

E' questo spett-attore, in altri termini, ad assemblare il sintagma: non solo grazie alla maggiore consapevolezza tecnologica che gli consente di mettere in comunicazione tra loro strumenti originariamente concepiti per scopi diversi, ma anche, forse soprattutto, grazie alla sua sempre maggiore coscienza di un vissuto mediatico personale, capace di plasmare la stessa identità del mezzo di comunicazione, decidendone lo scopo e le sinergie possibili, il palinsesto e persino il modello di business.

Per chi è abituato a pensare i media nella prospettiva dei Cultural Studies e degli Audience studies, si tratta di una novità solo relativa: da sempre il comportamento effettivo dei telespettatori ha orientato l'evoluzione televisiva e mediatica in generale. Ma la logica digitale, che permette di scomporre ogni medium ai suoi elementi primi – ai singoli frammenti di DNA, per tornare alla prima metafora, o se si preferisce la seconda, ai singoli elementi del paradigma – imprime ora un'accelerazione decisa a questa attività demiurgica, e la svela come vero fattore critico nella storia dei media prossima ventura.