A qualche giorno dal convegno organizzato dal Corecom su "Vecchia e nuova TV", mi è capitato di riascoltare le parole (disponibili qui) di Lorenzo Mieli, amministratore delegato di FremantleMedia; il quale, a circa metà della lunga mattinata di presentazioni e dibattiti, è stato tra gli speaker dell'affollato panel dedicato a "New TV e Digital Content".
All'inizio del suo intervento nella discussione (animata, oltre che da televisivi "tradizionali" come Andrea Vianello e Ilaria d'Amico, dalla presenza di uno dei creatori della web-serie italiana "Freaks", che ha riportato il dibattito sulle relazioni pericolose tra TV e strumenti sociali in Rete), Mieli ha affermato che dal suo punto di vista la dimensione della Social TV va letta più come un ingrediente utile alla costituzione di una comunità – e quindi alla comunicazione delle trasmissioni televisive, che come un vero e proprio contributo creativo ed editoriale. In altre parole, l'attività sociale produce partecipazione, aggregazione, consapevolezza, passaparola, ma non contenuto.
Evviva la franchezza, se non altro; la stessa che ha portato Mieli, tra gli altri, a usare la fatidica parola "clienti" per indicare gli spettatori, chiarendo ancora di più il concetto con il descriverli in termini di puro target pubblicitario. Per quanto sia indubitabile che produttori e broadcaster, almeno in Italia, vedono ancora le cose in questo modo, non è detto che la loro prospettiva corrisponda alla realtà dei loro stessi prodotti: i quali spesso, in uno scavalcamento quasi barthesiano dei loro autori, finiscono per generare conseguenze ed effetti imprevedibili almeno quanto quelle dell'amore, secondo un bel film di Sorrentino.
Davvero strumenti come Twitter, Facebook, YouTube e i vari tools di interazione sociale, per usare le parole di Mieli, non hanno finora modificato il contenuto, o lo hanno fatto solo in una minima parte? Sono partita da questa domanda, per costruirle intorno quello che sarà il mio contributo alla prossima Social Media Week (a Milano dal 19 al 23 settembre prossimi): un evento dedicato al matrimonio tra TV seriale e TV sociale, conl'intento specifico di mostrare, a dispetto delle dichiarazioni d'intenti, quanto plurali siano ormai gli autori delle narrazioni mediali (per il dove e il quando, ci risentiremo presto).
Forse chi produce e veicola oggi trasmissioni televisive, che siano fiction o factual, si produce perché così sia, si adopera perché l'intervento del pubblico nel tessuto vivo della narrazione televisiva sia limitato al minimo. Eppure, se si solleva lo sguardo anche solo di poco, non si può fare a meno di scorgere un'onda montante che smentisce nettamente una simile prospettiva. Benché non siano affatto isolati, i casi più macroscopici – come quello di Lost e delle altre serie di culto statunitensi – esemplificano al meglio come non solo il contributo al contenuto da parte delle audience, coinvolte attraverso meccanismi "social", sia effettivo e consistente: ma anche come l'entità di questo contributo sia direttamente proporzionale al successo e alla vitalità delle trasmissioni stesse – e in generale, come avremo modo di dire a Milano, rappresentino per la televisione una vera e propria iniezione vitale.