Referendum killed the video star?

Sono stati in molti, dopo le ultime consultazioni elettorali (tanto le amministrative quanto i referendum), a vedere nei risultati la conferma di un peso ormai determinante dei social network nella formazione dell'opinione e del conseguente orientamento del voto. Tanto determinante, quanto non sarebbe più quello della TV – che pure fino a qualche ora prima dell'apertura delle urne per le elezioni dei sindaci veniva additata come un formidabile strumento di propaganda, con tutte le recriminazioni annesse e connesse a carico della – televisivamente onnipresente – maggioranza di governo.

Che la formazione del consenso attraverso lo schermo televisivo sia tema più complesso di come sia possibile affrontarlo attraverso gli articoli giornalistici, è piuttosto assodato: per quanto vecchio, il dibattito teorico sull'efficacia o inefficacia dei messaggi televisivi come strumento di persuasione non accenna a placarsi. Senza riuscire a venire a capo di questo enigma (e senza potersi spiegare perché, nonostante le recriminazioni sull'onnipresenza televisiva del governo, il risultato elettorale non sia coinciso con le indicazioni del governo stesso: con il sospetto che avessero avuto ragione quelli che da tanti anni invitavano a cercare altrove le ragioni del successo del centrodestra), giornalisti e opinionisti  hanno dirottato le proprie energie nel tentativo di dimostrare che i social network abbiano finalmente prevalso sulla TV (un po' come le forze del bene sulle forze del male, o come il centrosinistra sul centrodestra). 

Eppure, quando il dibattito si approfondisce e si mettono i sostenitori della vittoria della Rete di fronte alla fondamentale alternativa tra il medium e il messaggio, anche i più accaniti riconoscono che è il messaggio ad aver contato, e reso determinante il medium. L'ha messa così anche Alessandra Ghisleri di Euromedia Research, che insieme a Paolo Messa (direttore di Formiche) partecipava qualche giorno fa a un seminario sulla costruzione del consenso in TV, e alla quale ho chiesto – se è vero che la Rete sia ormai tanto importante per la partecipazione elettorale – come possa la politica raggiungere il complesso dell'elettorato (e non solo gli italiani che possiedono un PC – poco più del 50% – o quelli che risultano connessi alla banda larga – meno del 50%, secondo l'AGCOM).  

Perché questo mi aspetto dalla politica – se non si tratta di parlare soltanto a metà del paese, o di indicare un utopico rimedio nella connessione istantanea della totalità delle abitazioni. E a questa aspettativa, come è facile immaginare, non si può rispondere se non uscendo dalla riflessione sul medium, e passando a quella sul messaggio. Associare l'opposizione ai nuovi media, e opporre poi la combinazione tra i due a una consociazione di "vecchi", fatta dalla maggioranza e dalle sue TV, significa perdere di vista la centralità dell'elemento che sta tra l'uno e l'altro degli associati: il contenuto della proposta politica. 

Chi oggi suggerisce al centrodestra di rivedere il proprio marketing politico, spostando i propri sforzi di comunicazione dalla televisione a Internet, e magari organizzando le primarie digitali, non gli rende un buon servizio: non soltanto perché non gli assicura il successo (come insegnano i tanti casi, non soltanto nel nostro paese, di campagne elettorali fortemente supportate dalla Rete e pure affatto coronate da successo, fuori dallo stretto ambito internettiano), ma anche perché taglia fuori quella parte di italiani che a Internet non accede, non può accedere, non vuole accedere, o semplicemente accede ma senza considerarlo uno strumento di partecipazione civica.

E a proposito, quando si parla di partecipazione civica su Twitter, va ricordato che nel nostro paese – come ha scritto Stefano Scetti – gli account sul social network sono 1,3 milioni, dei quali solo il 27%  vale a dire 351000, attivi; e che a livello globale  a generare la metà dei tweet sono solo 20000 utenti (che a livello nazionale diventano, presumibilmente, ancora meno). Una situazione che, se riportata sui "vecchi" broadcast media, farebbe gridare allo scandalo: ma che letta attraverso la lente dell'interattività genera una illusione prospettica. Dichiarare finita l'epoca della TV, proclamarla defunta, assassinata dalla Rete, al quale dedicarsi d'ora in avanti, vuol dire non aver ancora colto la diversità di natura, di scopi, di fruizioni e di pubblici tra i media: ma soprattutto, non dà certezza di aver compreso un elettorato, che è ben lontano dall'esaurirsi in qualche migliaio di grandi twittatori referendari.

 

  • Paola |

    “Saturazione” mi sembra il termine giusto: è per questo che resto scettica di fronte agli allarmismi (sia pure supportati dai dati di autorevoli osservatori della comunicazione) circa la presenza del presidente del Consiglio in TV. Presenza che tra l’altro mi sembra notevolmente diminuita negli ultimi mesi – quasi che sapesse quanto controproducente possa risultare l’assuefazione di cui parlavi.
    Oltre alla scarsa attinenza di tutto ciò con i contenuti del Berlusconi politico, a me sembra soprattutto che nulla abbia a che fare con il reale esito del voto nelle urne, che mi sembra davvero arduo continuare a sostenere sia “indirizzato” dai messaggi veicolati in TV più o meno collaterali rispetto alla maggioranza di governo.
    Paola

  • marco pigliacampo |

    Tema molto interessante per una discussione che va approfondita da molti punti di vista. Soprattutto, per me, da quaello mediologico.
    Già all’indomani della sconfitta di Berlusconi alle amministrative, scrissi dello scetticismo con cui ascoltavo parlare di fine del Berlusconismo televisivo. Commenti viziati dalla mancata considerazione del carattere fortemente deperibile dei media.
    Va tenuto conto, cioè, che tutti i media, e i format televisivi in modo particolare, hanno una spiccata propensione a divenire progressivamente obsoleti per il proprio pubblico di riferimento: coloro che più hanno avuto modo di seguire un certo medium più sono in grado di allontanarsi da esso.
    Nel nostro caso, coloro che hanno “tradito” il premier nelle sue apparizioni tv potrebbero essere coloro che maggiormente sono stati attratti – in passato – dal suo formato televisivo per antonomasia, fatto di un’inquadratura bloccata, di una scrivania autorevole, di una compostezza ricercata, di parole rassicuranti.
    Così come il processo di mutamento delle forme di comunicazione è impercettibile ma inesorabile fino all’obsolescenza e al loro completo superamento, allo stesso modo è implicita ma inevitabile la capacità delle persone di comprendere tali forme fino ad emanciparsene.
    La mia opinione, insomma, è che l’esposizione mediatica di Silvio Berlusconi abbia portato il suo format più tipico ad un livello di saturazione che non produce più l’attenzione dei telespettatori. Ma anche che tutto ciò non ha nulla a che fare con i contenuti del Berlusconi politico.

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