Per tutta l’estate ero riuscita a sfuggire al Pulcino Pio.
Nemmeno sapevo cosa fosse, dove si annidasse, non l’ho mai ascoltato, tutt’al
più ne scorgevo distrattamente il nome sui tweet senza soffermarmi. Poi è
arrivato questo post di Antonio, che invece ho letto attentamente, e che mi ha costretto a fare i conti con la mia
ignoranza per riparare.
Nel post si sostiene che il pulcino Pio (che non vi
presento perché voi tutti, al contrario di me, sapete di certo da tempo di cosa
si tratti) sia l’ultimo dei deteriori esempi di come in Italia “qualcuno decide a
tavolino che cosa gli italiani dovranno canticchiare, sbeffeggiare, e
ovviamente anche detestare, perchè occorre coprire tutto lo spettro delle
reazioni, quindi “deve fare anche un po’ francamente schifo”. E soprattutto di
cosa gli italiani dovranno parlare per evitare di correre il rischio che siano
loro a definire “l’agenda della conversazione” sotto l’ombrellone.” E pazienza se stavolta non è possibile dar la colpa (almeno
non completamente) alla TV: la morale è sempre quella, gli italiani sono "un popolo di pecoroni".
Davvero è così? Davvero, ancora una volta, è tutta colpa degli
italiani che “sembrano non sapere cosa farsene, di internet, se non una cassa
di risonanza per l’eterno chiacchericcio imposto da giornali, radio e
televisione”? Non sono un'esperta di teoria dei memi (anche se ho sempre istintivamente diffidato del concetto proposto da Dawkins, che mi ricorda troppo da vicino le troppo elementari "idee semplici" tanto care alla filosofia del Seicento). Non sono quindi in grado di giudicare se sia vero che il numero di memi nati su Internet all'estero superi di gran lunga quelli "partoriti" dalla rete italiana, dove Internet resterebbe invece un mero strumento di diffusione per tormentoni nati ancora in seno agli old media.
Quel che posso dire con un buon grado di certezza, però, è che la lamentatio mi ha ricordato da vicino l'invettiva che si trova nelle pagine di un guru della cultura digitale, che con il nostro paese ha ben poco a che vedere. In "Tu non sei un gadget" ("You are not a gadget", tradotto in italiano da Mondadori), Jaron Lanier scrive:
"La 'cultura fresca, radicale' che oggi ci si può aspettare di veder celebrata nel mondo online è un insignificante mash-up di espressioni culturali risalenti a prima del Web. Date un'ochiata a un importante blog culturale come Boing Boing, o all'infinito flusso di mash-up presente su YouTube. E' come se la cultura si fosse congelata appena prima di diventare digitalmente open, e l'unica cosa che possiamo fare ora sia scavare nel passato, come persone che frugano in una discarica".
E continua:
"E' una cosa imbarazzante. Il lato più interessante delle tecnologie mediali interconnesse era proprio il fatto che si supponeva avremmo inventato espressioni culturali nuove e sorprendenti. Anzi,. di più: si supppneva che avremmo creato migliori modalità fondamentali d'espressione".
Persino a Lanier, pioniere statunitense della realtà virtuale, sembra che "Internet [sia] davvero destinata a essere nient'altro che un medium accessorio", ciò che "sarebbe una sconfitta cocente". A prima vista, insomma, il problema non è solo né soprattutto italiano, ma ha a che fare con l'essenza stessa di quella che chiamiamo la "cultura della Rete". E anche a scorrere l'elenco delle "popular entries" del sito knowyourmeme.org, si fa fatica a rintracciare qualcosa di completamente originale (ciò che però ha più a che fare con il problema connaturato al concetto di "meme", credo, che con la qualità dei contenuti del DB).
Ma siamo poi certi che originalità e creatività siano un valore in sé? Uno degli studi più completi che a mia conoscenza siano stati pubblicati su YouTube, dimora privilegiata del pulcino Pio et similia, è il libro di Jean Burgess e Joshua Green (YouTube, Egea, Milano 2009), basato su una documentatissima ricerca realizzata nel 2007 sui contenuti più popolari del portale (detto tra noi, l'unica vera differenza tra stranieri e italiani per me evidente è la mancanza di studi analoghi realizzati dai secondi).
Le conclusioni cui giungono Burgess e Green sono antitetiche rispetto a tutta la corrente di pensiero che identifica la youtubeness di YouTube con la "dirompente produttività": quella stessa che, sempre secondo la stessa corrente di pensiero, connoterebbe le nuove audience "attive" in opposizione stridente con i tradizionali telespettatori "passivi". Al contrario, Burgess e Green mostrano con evidenza come non ci sia alcuna opposizione: semmai, una lunga, lenta continuità che congiunge due estremi – la produzione UGC e le trasmissioni TV mainstream – mai veramente estranei tra loro. Quel che più importa, i risultati portano i ricercatori ad affermare che il carattere precipuo di YouTube non sta nella produttività, nella creatività, nell'originalità: ma nella capacità di rappresentare il grande archivio video della cultura popolare, registrando fedelmente la memoria di un'esperienza della TV che non è quella industriale, ma quella delle audience reali. Più che il contenuto, insomma, conta l'uso che se ne fa: e l'uso è soprattutto condivisione, segnalazione, commento, vale a dire partecipazione.
Le pratiche all'opera in qualsiasi upload di contenuti video – incluso, che ci piaccia o no, il famoso pulcino Pio – sono la versione "visibile" di quelle stesse pratiche di fruizione che la ricerca sull'audience, almeno a partire dagli anni Ottanta, ha rintracciato e seguito da vicino, giungendo a demolire l'immagine stereotipata del "couch potato". Tra spettatori e Youtubers non c'è una differenza qualitativa, ma solo quantitativa: entrambi sono manifestazione di quella che Burgess chiama "cultural citizenship", più vicine alla sensibilità civica di quanto lo siano tante altre pensose manifestazioni in cui la TV, com'è ovvio, viene deprecata.
Non so se tutto ciò basta a iscrivermi tra i socio-antropologi da cui Antonio prende le distanze, ma certamente basta a farmi dubitare che l'inter-passività – così come, nella stessa e medesima proporzione, l'inter-attività – sia una realtà, e come tale una reale minaccia. Forse non esistono navigatori "attivi" e telespettatori (o radioascoltatori, o persino twittatori e facebukkatori) "passivi", né italiani, né stranieri: forse esistono solo diversi modi di partecipare, il che resta – come insegnava De Coubertin – l'importante.