Il senso del video online per la TV

I segnali che arrivano dal MIPTV parlano insistentemente di video online: che in questa edizione della manifestazione ha decisamente rubato la scena alla “vecchia” televisione per imporre il dibattito sui propri contenuti e modelli di business. Un segno dei tempi, certamente: ma anche un segno che la TV è (finalmente) finita? Certo che no, ormai lo sappiamo tutti.

Non a caso, il protagonista indiscusso della manifestazione di Cannes è stato YouTube: vale a dire, un medium che – a dispetto dei suoi tentativi di spacciarsi per tale – non è affatto una TV. Forse proprio per questo YouTube rappresenta a tutt’oggi uno dei pochi segni positivi nella sequenza dei tentativi di Google con il video: altrimenti caratterizzati da partnership mancate, contenuti insufficienti, interazione complessa. Uno ad uno, gli ostacoli che hanno minato alle fondamenta la nascita della Google TV secondo alcuni si preparano a fare altrettanto con la Android TV prossima ventura. Ma lo stesso vale per Apple: proprio in questi giorni, puntuali come le allergie primaverili, riemergono per l’ennesima volta i rumors sul lancio di una nuova versione della Apple TV.

Riuscirci non è impossibile: altri ce l’hanno fatta, come Netflix, come Amazon, come altri player che hanno realmente innovato il campo del video, realizzando cose egregie senza partire dalla TV (semmai, dai DVD), né volendoci arrivare. Le pretese di riformare o rimpiazzare il piccolo schermo, durate giusto lo spazio di un comunicato stampa, sono qui passate in secondo piano rispetto alla presenza di un’idea realmente nuova dell’offerta editoriale e dei modelli di business, nonché dello spettatore, delle sue occasioni d’uso e dei suoi modelli di fruizione. Pensarla come una questione di “contenuti” e di “contenitori” è certamente semplificatorio (un po’ come distinguere “televisivi” e “computerari”, i primi conservatori, i secondi innovatori): un medium è una combinazione complessa e originale di elementi caratterizzanti – palinsesti, contenuti, reti, industrie produttive e distributive, pubblici. Non basta puntare sui contenuti (semmai, come nel caso di Netflix, quello alla programmazione originale è l’approdo finale di un percorso decisamente più complesso), né a maggiore ragione partire dai contenitori, vale a dire da una tecnologia dichiaratamente e radicalmente alternativa al broadcast, pretendendo che tutto il resto segua. Questo atteggiamento ha contraddistinto gli insuccessi, emblematicamente segnati dalla semplice associazione del brand della società al nome TV, come se bastasse a “depurare” il piccolo schermo, a fargli emendare la sua colpa, il suo errore primigenio.

Google e Apple finora non ci sono riuscite. Forse ci riusciranno Microsoft, o Yahoo! (che comunicando la sua iniziativa di programmazione originale ha sapientemente preso di mira Netflix, non la televisione): ma proprio per questo non sostituiranno la TV. Non la sostituirà Netflix, il cui numero di abbonati globale nel mondo ammonta a un po’ più del doppio degli spettatori italiani durante una partita della Nazionale, che però fa meno notizia. Non la sostituirà YouTube, che dirotta verso di sé risorse crescenti, ma con altri ordini di grandezza, come mostrano i numeri diffusi durante lo stesso MIPTV che ha magnificato la piattaforma di Mountain View. Secondo il report  sui contenuti digitali diffuso a Cannes, la spesa globale in advertising sulla TV nel 2012 ammonta a 162 mld $, che diventeranno più di 200 nel 2017 (dati PriceWaterhouseCoopers). In quell’anno, gli investimenti pubblicitari su Internet, che totalizzavano 100 mld $ nel 2012, dovrebbero ammontare a 185 mld$, riducendo il divario a soli 17 mld $. Ma quanti di questi saranno destinati all’online video? Nel medesimo report, i dati di IHS riferiscono che globalmente i ricavi da video online ammontavano a 12 mld $ nel 2012, che cresceranno fino a sfiorare i 30 nel 2017. Ma solo la metà di tali ricavi è riconducibile all’advertising; e la quota destinata a YouTube è approssimativamente la metà di questa metà. Stiamo parlando a occhio di 4 mld $ nel 2012: destinati certamente a crescere, sia in termini assoluti che rispetto al totale; ma pur sempre il 4% del totale investimenti in Internet Advertising – che potrebbe diventare il 5 o il 6 se le previsioni si rivelassero azzeccate – e qualcosa in più del 2%, se si guarda alla raccolta pubblicitaria televisiva.

Immagine1

La TV resta dunque insostituibile, ma non serve essere “televisivi” per dirlo. Serve una concezione olistica dei media,  per sapere che il video online non è una TV che ha “espiato” la presunta colpa originale, ma un medium nuovo, vale a dire una nuova combinazione originale di elementi caratterizzanti,  alcuni dei quali decisamente diversi rispetto alla TV – come quelli della TV lo sono stati rispetto al cinema, o alla radio, o al telefono. Rispettare questa diversità e perseguirla fino in fondo, senza farsi tentare dai confronti o dai rimpiazzi, è la miglior garanzia di innovazione. Poi, è chiaro, a decidere il successo o l’insuccesso del nuovo medium resta il pubblico, non la tecnologia o le strategie della industry: queste propongono, ma è lo spettatore che dispone. Può darsi che accolga favorevolmente la disruption dall’alto: per fare un esempio noto, nella storia della televisione questo è avvenuto con il boom della TV commerciale e la rottura dell’unità della programmazione, interrotta dagli spot, accettati dal pubblico tanto da diventare parte integrante del loro flusso di visione (oltre che della loro cultura condivisa). Ma può anche darsi che se ne impadronisca e la trasformi in qualcosa di completamente diverso (non solo textual, ma media poachers): come nel caso del binge viewing delle serie TV, che ha infine condotto le produzioni a cambiare il modo stesso di scrivere le sceneggiature; o dell’appuntamento fisso con il palinsesto della TV lineare, che acquista un altro senso se accompagnato dal livetweeting. In altri termini, il successo del medium è una questione di empowerment dell’audience (o come ha detto Alex Carloss di YouTube  al MIPTV, fanbase): oltre che, naturalmente, di senso condiviso. Un medium , vecchio o nuovo, si dà solo se ha senso per i suoi spettatori: e almeno al momento, la TV continua ad averne da vendere.