Prima o poi, come scrive Luca De Biase, la smetteremo di pensare il mondo dei media in termini di contenitori e di contenuti: e allora forse anche l’operazione appena conclusa all’interno dell’universo di Murdoch – con BSkyB che acquista Sky Italia e Sky Deutschland dalla 21st Century Fox, che a sua volta fa il pieno di risorse in vista di un’offerta su Time Warner – ci apparirà sotto una luce diversa. Diversa da quella che ha suggerito di leggerla come concentrazione da un lato delle reti di distribuzione e dall’altro dell’industria della produzione: una sorta di contrappasso della convergenza, se non una vera e propria divergenza. E allora forse rimarremo meno spiazzati nell’apprendere che proprio la BSkyB a cui fa capo il polo distributivo decide di investire nella realtà virtuale, fonte di strumenti preziosi per i creatori video cinematografici. Sì, proprio il network satellitare paneuropeo che a una prima lettura dei fatti sembrerebbe aver lasciato nelle capaci mani della holding editoriale tutto ciò che concerneva la produzione per il cinema.
Non che la distinzione tra contenuti e contenitori sia stata inutile, nella lunga epoca della transizione digitale, quando a dar retta ai guru sembrava che ogni messaggio fosse in fondo destinato a ridursi a lunghe, interscambiabili sequenze di zero e uno. Ma adesso che abbiamo uniformato le scritture in un codice unico, ci tocca risalire dalla scrittura allo scritto, per accorgerci che i messaggi sono tutt’altro che riducibili gli uni agli altri, e che ciò che vale per alcuni di essi – i brani musicali, ad esempio – non vale per altri – libri, ma anche video. Messaggi – non contenuti – diversi portano con sé destinatari e modelli di ricezione diversi, che implicano diversi modelli di business e quindi diverse pratiche industriali, con diverse strategie di sostenibilità.
Non è affatto scontato, ad esempio, che la proposta di un abbonamento all-you-can-eat, così gradita agli ascoltatori di musica e agli spettatori di film e serie TV, sia valida anche per il popolo dei lettori: tra i quali vi saranno senz’altro appassionati del binge reading, che tuttavia probabilmente apprezzano il possesso materiale (o digitale) del bene librario. Tutti gli altri potrebbero apprezzare la possibilità di rivolgersi a una risorsa potenzialmente illimitata, ma che a differenza delle public libraries di cui parla Alberto Mingardi non è né pubblica né aperta. Immaginare un nuovo modello di remunerazione degli autori potrà dare in parte risposta a perplessità simili, ma lascerà irrisolto il dilemma del comportamento degli utenti – anzi, dei lettori, visto che dopo aver smesso di parlare di contenuti e contenitori sarà il caso di ricominciare a chiamare anche le persone con il loro nome.