Chi guarda non necessariamente vede, si sa. Eppure, quando si tratta di pubblicità, questa continua ad essere l’assunzione di fondo: il fatto di mostrare un’immagine continua ad essere equiparato alla sua acquisizione ed assimilazione, più o meno forzata, da parte degli spettatori.
A lungo questa è stata la legge del business televisivo, prima di estendersi a Internet attraverso i nuovi dispositivi, soprattutto mobili. Fino ad arrivare ai mobile games, che secondo alcuni potrebbero rappresentare il nuovo veicolo preferenziale per i messaggi pubblicitari. Non è forse su di essi che si appuntano avidamente i nostri occhi di giocatori? E non è forse per guardare i videogiochi altrui che sempre più utenti di online video scelgono Twitch, il servizio di videogame streaming appena acquistato da Amazon per 970 milioni di dollari? Un valore in larga parte determinato dalla crescente fame di contenuti per le nuove piattaforme: ma non va trascurata la potenzialità che questi contenuti detengono come mezzo di affissione virtuale e quindi di attrazione per gli investitori pubblicitari.
Ovunque i nostri occhi si soffermino, là c’è spazio per un’inserzione: questa è la filosofia generalmente affermata nella nostra epoca di spectacle /performance. Fino a quando, prima o poi, diventeremo stanchi di tutta questa visione. E allora, mentre le immagini sbiadiranno, le merci, i marchi e i servizi che avranno lavorato ad attirare il nostro interesse e il nostro favore di consumatori attraverso la conversazione, la co-creazione e l’empowerment – invece di considerarci mere eyeballs – avranno ancora qualcosa da dirci.