Ne resterà soltanto uno. O almeno, resteranno in pochissimi: pochi e potenti, capaci di concentrare nelle loro mani il controllo di tutti i dati personali in Rete, a livello globale. E’ l’allarme lanciato qualche giorno fa sulle pagine del Guardian da Neil Lawrence: i soggetti di cui parla Lawrence – siti web, carte di credito, motori di ricerca, supermercati, social network e app varie – dominano le informazioni che ogni giorno affidiamo a Internet, ma a differenza delle banche, alle quali affidiamo risparmi personali che possiamo in ogni momento reclamare indietro, non hanno alcun obbligo di restituzione. Proprio le nostre informazioni, accumulate nei server alla stregua di capitali, potrebbero consolidare una nuova oligarchia, di stampo digitale, ma non meno ristretta di quelle tradizionali. Il passaggio chiave del ragionamento sta nell’equivalenza tra informazioni e potere, e quindi denaro: un’equivalenza della quale è necessario acquisire piena consapevolezza. Secondo il nuovo report “Digital Trends 2015” di Microsoft, appena pubblicato, una simile consapevolezza sarebbe sempre più diffusa, e allo stesso tempo si accompagnerebbe a una crescente disponibilità a diffondere le informazioni su se stessi, purché questo serva a ottenere esperienze che migliorino davvero la vita. Ad oggi, come ricorda Lawrence, la raccolta dei dati personali viene effettuata tanto da attori del mondo retail quanto da piattaforme digitali. Mentre nei primi casi sono in gioco l’erogazione dei prodotti e servizi o al più le varie tecniche di Crm, nei rimanenti siamo di fronte a un vero e proprio modello di business che consente all’utente finale la fruizione gratuita a condizione di saperne un po’ di più su di lui. Qualcosa di simile accade nella TV commerciale e free-to-air, il cui prodotto non sono – com’è noto – le trasmissioni, ma le eyeballs da vendere agli inserzionisti pubblicitari. Solo che, nel caso di Google – per citare l’esempio più noto – non si tratta più di “occhi” generici, ma di identità profilate, scandagliate, investigate in dettaglio nelle loro abitudini e preferenze. E’ questo dettaglio a fungere da moneta di scambio, come sottolinea Lawrence: i gestori dei servizi online chiedono come contropartita informazioni personali, che immettono nel circolo dei database – senza mai restituirle ai legittimi proprietari. La concentrazione dei gestori potrebbe venire in aiuto di chi voglia fermare la circolazione dei dati. Così come nel caso specifico del diritto all’oblio digitale, il cui riconoscimento è stato reso applicabile dall’esistenza di un monopolio di fatto nel campo dei motori di ricerca, anche nella fattispecie più ampia tutto sarebbe più semplice, se fosse possibile rivolgersi a un solo soggetto – o a un numero molto ristretto di soggetti – per chiedere di poter tornare a disporre pienamente delle informazioni su se stessi. Potremmo pensarlo come una sorta di “riscatto digitale” per liberare i propri dati, tenuti in ostaggio per ripagare servizi apparentemente gratuiti. Fuor di metafora, il meccanismo potrebbe essere accostato a quello che regola i servizi freemium – come quelli di streaming musicale, che offrono libero ascolto previa accettazione della pubblicità, ma offrono in alternativa la possibilità di sottoscrivere un abbonamento per ascoltare musica senza spot. Probabilmente, una volta presa coscienza della trasformazione delle proprie informazioni personali in una forma di capitale e quindi di potere accumulato, non pochi utenti accetterebbero di pagare per poter fruire degli stessi servizi, senza essere tracciati, schedati e rivenduti agli inserzionisti. Il punto sarebbe allora quantificare – in maniera il più possibile equa – questo riscatto, in modo che non possa trasformarsi in un taglieggiamento. Anche questa soluzione nasconde però un’insidia, minacciando di riproporre in nuove forme vecchie disuguaglianze. Si tratta di un’ipotesi estrema, ma non peregrina, che deve far riflettere una volta di più sul valore dei dati e sull’equivalenza tra informazione, potere e denaro. Nel caso specifico, si allargherebbe il divario tra chi può permettersi di pagare il riscatto, e chi invece per continuare a effettuare ricerche, consultare mappe, tenersi in contatto con gli altri deve accettare di cedere informazioni personali o, in alternativa, decidere di autoescludersi dalla vita digitale. E tuttavia, forse il divario stesso sarebbe origine di una nuova consapevolezza, di un’acquisizione di coscienza, a sua volta motore di cambiamento. In ogni caso, sarà bene che questa consapevolezza, questa coscienza, si diffondano fin d’ora, nella maniera più ampia e profonda possibile. (Articolo pubblicato il 10/3/2015 su Cor.Com.; grazie a Giovanni Arata per la segnalazione)
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