Bisogna che tutto cambi, perché tutto resti uguale. Ad esempio, la TV, che secondo il nuovo rapport Censis-UCSI, è ancora il medium più popolare in Italia, con il 96,7% di utenti intervistati che hanno dichiarato una frequenza d’uso di almeno una volta alla settimana. Come è stato subito precisato in sede di presentazione del rapporto, tuttavia, sarebbe meglio dire “le” TV, distinguendo quella “tradizionale” (vale a dire, la televisione su digitale terrestre, fruita dal 94% dei rispondenti) da quella satellitare (42,4%), e queste a loro volta dalla smart TV(10%), dalla mobile TV(11,6%) e dalla web TV(23,7%).
I nomi tuttavia possono ingannare. La TV è certamente cambiata, aprendosi a nuove forme che in mancanza di ulteriori riflessioni ad oggi portano ancora il suo nome – colpa nostra, che per denominarle non abbiamo trovato di meglio del connubio tra due termini, il nuovo e il vecchio: praticamente un ircocervo. Ma queste stesse forme si sono trasformate negli anni: così, quest’anno si è reso necessario per i ricercatori del Censis passare dalla “IPTV” alla “smart TV”, prendendo atto di un fenomeno che, almeno nel nostro paese, sposta il peso dalla rete di trasmissione dei contenuti al dispositivo – il televisore nativamente connesso.
Peccato che la stessa revisione non sia toccata alle altre tipologie di fruizione video, come la web TV, o la mobile TV – che appare temerario chiamare ancora così nel 2015, non foss’altro per la sua travagliata storia. Stando così le cose, fenomeni come Meerkat o Periscope sarebbero del tutto “invisibili” a una rilevazione come quella del Censis: il terminale di fruizione resta lo stesso, e persino la modalità di trasmissione – quella “live” – non è inaudita, eppure siamo senz’altro di fronte a un’innovazione che vale la pena di studiare più da vicino.
Con quali strumenti? Con quali categorie? Com’è fatta la “cassetta degli attrezzi” che consente di analizzare nascita, crescita e struttura di queste nuove entità? Qui più che mai occorrerebbe cambiare davvero. Abbracciare solo l’ottica dei device – o solo delle reti, o solo dei contenuti – non basta più, se mai è bastato. Solo l’osservazione integrata del reticolato di regole che presiedono a ogni gioco mediale – e nel caso delle nuove app di live streaming sembra più che mai il caso di usare questa espressione – può permetterci di “entrare” davvero nel gioco. Non semplicemente di giocarlo, da buoni aca-players, ma di interpretarlo, individuando connessioni non scontate – ben oltre il connubio tra “TV” e ogni altra cosa, presente o futura, ci venga in mente, o il gattopardo televisivo continuerà a godere di ottima salute.