TV, due pesi e due misure?

Mentre in Italia l’audience va in ferie forzate, costretta – pare – da un banale errore di Nielsen che avrebbe svelato l’identità del campione Auditel (e costretto la stessa Auditel  a sospendere la diffusione dei dati di ascolto televisivo), negli Stati Uniti la stessa Nielsen perora con veemenza  – per bocca del presidente Steve Hasker e del responsabile degli audience insights Glenn Enoch –  la causa dell’estensione del sistema di misurazione degli ascolti televisivi anche ai servizi di subscription video streaming on demand (SVOD – come Netflix o Hulu).

Una questione di trasparenza, secondo Hasker e Enoch, ma anche di strategia, dal momento che le grandi media companies sempre più preferiscono licenziare i propri prodotti (soprattutto le serie TV) ai providers SVOD, invece che alle pay-TV – anche a discapito dei ricavi, che come fa rilevare Nielsen restano di gran lunga superiori nel secondo caso.  La scelta è motivata dal persistente declino del numero di abbonamenti TV tradizionali, registrato trimestre dopo trimestre dai bilanci degli operatori via cavo. Secondo Nielsen, tuttavia, tanta sfiducia non è pienamente fondata, visto che anche gli abbonamenti TV sono soggetti a un certo tasso di stagionalità. Soprattutto, il numero di abbonati non può rappresentare l’unico indicatore del successo (o della rovina) di una TV, nuova o vecchia che sia. Per questo, occorre smettere di adottare due pesi e due misure, e iniziare a comparare tutte le varie offerte televisive in termini di effettiva fruizione da parte degli spettatori, unita a informazioni il più possibile esaurienti sul loro profilo sociodemografico.

L’argomentazione di Nielsen non è peregrina, dal punto di vista dei produttori e dei distributori – per i quali la TV lineare e lo SVOD sono entrambi possibili acquirenti di diritti, in concorrenza tra di loro: è dunque corretto che vengano valutati con lo stesso metro. Tuttavia, il metro giusto potrebbe non essere quello costruito su misura per le trasmissioni live via broadcasting e cavo. Il dubbio, in altri termini, è che una volta aperto il vaso della fruizione on demand, che ha rotto le unità di tempo e di spazio della rappresentazione televisiva, sia possibile pretendere di rimettere dentro tutte le svariate modalità di visione che ne sono derivate, per uniformarle tutte secondo un criterio – e un peso – che non appartiene loro.

A ciò si aggiunge il fatto che, in campo televisivo, da tempo non esistono più players “puri”: sempre più le majors tendono a lanciare propri servizi SVOD per disporre di canali alternativi di distribuzione (Hulu ne è un esempio) che possano controllare, così come Netflix e soci sempre più si allargano nel campo della produzione, prima solo televisiva, ora anche cinematografica. Da entrambe le parti, dunque, arrivano pressioni uguali e contrarie alla revisione dei costi dei prodotti audiovisuali licenziati, che modificheranno il mercato in ogni caso. Se si considera inoltre che lo stesso business pubblicitario – spina dorsale della TV non solo statunitense – attraversa un ripensamento profondo, e si interroga sulla necessità di rivedere i propri criteri e le proprie metriche, ci si rende conto di come il conteggio, sia pure ragionato, degli eyeball, assunto a norma universale di giudizio del valore di un canale di distribuzione rischi di avere gli anni (se non i mesi) contati. Se poi oltreoceano venissero a sapere del patatrac dell’Auditel nostrana…