Uno degli aspetti più invidiabili del mio lavoro è il fatto che beneficia del suo stesso frutto. Per parafrase una nota espressione del mondo del software, se si emette conoscenza si riceve conoscenza: produrre apprendimento è esso stesso apprendere. Nel caso della presentazione del libro di Luca De Biase “Il lavoro del futuro” , che si è svolta il 5 dicembre in Vetrya Academy, da imparare c’è stato davvero tanto. Per esempio, che la trasformazione alla quale stiamo assistendo, e che a qualche catastrofista sembra irreversibilmente diretta verso la distruzione, assomiglia da vicino – come De Biase ha sottolineato – a quella già accaduta alla periferia milanese nel dopoguerra, con lo spostamento di una quota massiccia di lavoratori agricoli verso l’industria, e lo spopolamento delle campagne (caso in cui sembra quanto meno inesatto parlare di “distruzione di posti di lavoro nell’agricoltura”). Oppure, che i connotati indefiniti del futuro che si prospetta (ancora De Biase) rappresentano insieme un dato inquietante e una straordinaria opportunità di definirli, purchè non ci si stanchi di parlare, di interrogare, di fare domande. O ancora, che a fronte di questa mutevolezza, di questa indefinitezza, il concetto di sindacato – che apparirebbe consegnato al passato, ad esempio nel caso della gig economy (richiamata da Massimo Chiriatti) – ha invece ancora molto da dire, uscendo dal paradigma della contrapposizione cieca e aprendosi alle esperienze inaudite di impresa, di collaborazione che si profilano – e pazienza se il leader di un sindacato d’avanguardia, come Marco Bentivogli, viene accusato di essere amico dei robot (novelli spauracchi e avatar dei padroni), minacciato e persino aggredito, com’è accaduto di recente.
Di fronte ai relatori della presentazione, la generazione dei futuri lavoratori – gli studenti di scuola superiore, nel caso specifico quelli presenti all’evento – non è sembrata affatto preoccupata delle possibili ripercussioni della digitalizzazione sulla loro possibilità di trovare impiego: ma non si tratta solo di beata incoscienza. Sanno bene che la gratuità dei servizi digitali, sulla quale sono stati sollecitati da Luca Tomassini, nasconde una pretesa avanzata sul loro tempo e sui loro dati personali. Nonostante questo, la loro percezione del digital labor è aperta e fiduciosa: l’economia delle piattaforme, che secondo i critici tende a spremere valore dagli utenti senza mai restituirlo loro in maniera equa, nelle parole dei giovani più avveduti rappresenta al contrario un’occasione preziosa di visibilità e di libertà di espressione. Questi ragazzi non sono spaventati dal fatto di essere diventati il loro stesso palinsesto, ormai lontani dall’epoca dei media broadcast nei quali la programmazione, il contenuto, erano distribuiti in maniera centralizzata: non percepiscono la diffusione costante delle loro passioni e relazioni come generazione di profitto per i social network; né sono infastiditi dalla considerazione che, senza la loro incessante produzione editoriale, le grandi piattaforme d’oltreoceano mancherebbero della sostanza stessa che ne consente l’esistenza e la persistenza. Tutto questo, come ho imparato, non li turba perchè oggi più che mai è il medium a essere il messaggio: il valore sta nel transito e nell’utilizzo, non nella conservazione e nella proprietà; sta nella capacità di consentire quella circolazione che è la sostanza stessa della comunicazione. Non sappiamo granché di come sarà fatto il lavoro del futuro: ma da questa presentazione ho imparato che la sua inafferrabilità, la sua invisibilità, la sua evanescenza racchiudono una straordinaria promessa.