Non ho mai avuto una memoria da elefante. Da qualche tempo, però, faccio ormai fatica a ricordare qualsiasi cosa, anche la più banale, anche la più recente, anche la più rilevante. Nomi, luoghi, attività si dissolvono nella nebbia, a meno che non siano ancorati a un supporto tecnologico (tipicamente, un’app: per l’agenda, per la gestione progetti, per la navigazione urbana, per la lista spesa…). Confesso perciò che è per bieche motivazioni personali che ho cominciato a interessarmi al problema della memoria, che insieme all’attenzione (un altro tema cruciale per l’età digitale) rappresenta uno dei due capisaldi dell’individuazione, e quindi dell’identità umana.
Di certo tanta labilità del ricordo ha a che fare con il sovraccarico di informazioni, con il mondo “overcrowded” (per dirla con Verganti), con il logorio della vita moderna (per dirla, meno contemporaneamente, con Calindri): uno scenario cognitivo nel quale la sovrabbondanza di dati rende sempre più difficoltosa la selezione (la crisi dell’attenzione selettiva è la premessa della “costante attenzione parziale”, come l’ha definita Linda Stone, ripresa da Alberto Contri), e quindi la possibilità stessa di trattenere e conservare l’essenziale. L’impressione, tuttavia, è che non si tratti solo di questo: che a essere indebolita sia la capacità intrinseca del ricordo, che chiamerò impropriamente memorabilità.
Non ho sufficienti ragioni per stabilire una relazione di causalità tra questo indebolimento e l’utilizzo sempre crescente di memorie delegate, tra le quali rientrano naturalmente i dispositivi di storage, fisici o in cloud, ma ancor di più quegli sconfinati depositi delle nostre storie che sono i social network. Almeno la loro concomitanza, tuttavia, è sotto gli occhi di tutti. Sono queste memorie, oggi, a custodire (a possedere?) tutti i nostri ricordi, a partire dalle foto, sempre più numerose e di converso sempre meno consultate. Ma lo stesso vale per le memorie che gestiscono le informazioni di mera utilità, tipicamente appannaggio della memoria a breve termine: il nostro numero di telefono, la posizione degli oggetti di uso comune, il nome delle persone con cui abbiamo contatti, le strade che percorriamo.
Non è forse un caso se nell’ultimo report del World Economic Forum sul futuro del lavoro, dedicato alla rivoluzione del reskilling, la memoria viene citata al primo posto tra le mental skills la cui domanda sul mercato sarà in declino nei prossimi anni. A breve non ci sarà più bisogno di ricordare, perché saranno le memorie delegate, online e offline, a farlo per noi: non quelle dei robot, che pure non si faranno attendere, ma quelle che già oggi ci circondano, e incamerano costantemente brani delle nostre vite da archiviare. Saranno forse loro stesse a sostenerci, ad accompagnarci, a guidarci passo dopo passo senza più necessità di occupare indebitamente la nostra mente con idee, oggetti, procedure e sequenze della cui custodia e attivazione possiamo serenamente incaricare una macchina.
Quando però invece i brani delle vite individuali è coinvolta l’intera vicenda umana, il problema da cognitivo diventa culturale: non si tratta più dell’identità di un singolo, ma della nostra storia, intesa come il racconto del nostro cammino in ogni campo. Il sapere (anche quello scientifico) è appunto la nostra relazione con questa storia: conoscerla, studiarla, ricordarla significa essere uomini. O meglio, significava. La disponibilità ubiqua e costante delle fonti online (a partire da Wikipedia, sempre più vista dalla prospettiva dei fruitori invece che da quella dei creatori) sta cambiando, ha cambiato anche la forma del conoscere, nel quale – di nuovo – il ruolo della memorabilità appare sempre più secondario.
L’irruzione di una tecnologia potente come la scrittura, ci ha spiegato Walter Ong, ha determinato una vera e propria rivoluzione nella cultura dell’oralità. Sta accadendo, accadrà lo stesso con la nuova forma di conoscenza alla quale assegneremo il nome di sapere, anch’essa indistricabilmente legata a una nuova tecnologia, con un impatto altrettanto significativo sulla facoltà di ricordare. L’espressione “a memoria d’uomo” potrebbe allora diventare inesorabilmente obsoleta. Rimane la domanda se quello che chiameremo sapere sarà ancora, almeno in parte, un sapere umano.