A leggere il report di GFK sulle Smart TV, reso noto a fine agosto in occasione dell’IFA di Berlino, si potrebbero trarre almeno due tipi di conclusioni. La prima coincide con il commento proposto dalla stessa società di ricerca: i telespettatori occidentali, rispetto a quelli orientali e dei paesi emergenti, sono ancora “analogici”. O per meglio dire, disconnessi: secondo le indagini effettuate da GFK su 16 paesi, solo il 26% dei consumatori britannici e il 29% di quelli americani, recandosi ad acquistare un nuovo televisore, si sono preoccupati che fosse connettibile alla Rete. In India la percentuale sale al 61%, e in Cina addirittura al 64%. Di coloro che hanno già acquistato una Smart TV, invece, meno della metà degli occidentali ha effettivamente utilizzato le sue funzionalità interattive; mentre tra i cinesi almeno il 75% le ha provate nell’ultimo mese.
Ma se la familiarità con le Smart TV divide oriente e occidente, a riunirli è il tipo di comportamento prevalente in presenza di un televisore connesso – dispositivo affascinante, che invita di per sé a un’esperienza di visione “aumentata”. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, questo “aumento” non è legato alla possibilità di interagire con le trasmissioni o di commentarle. Globalmente, gli spettatori che cercano informazioni sulla trasmissione che stanno guardando sono più di quelli che utilizzano le funzionalità interattive per condividere le impressioni di visione: per la precisione, il 33% in più. La curiosità, insomma, avrà anche ucciso il gatto, ma sembra fare un gran bene allo spettatore enhanced: la seconda possibile conclusione è che il compito da affidare ai televisori connessi abbia a che fare con la discovery, molto più che con l’interaction.
L’interpretazione offerta dai ricercatori di Gfk punta alla necessità
di incrementare l’offerta editoriale attraverso campagne virali e
contenuti “bonus”, piuttosto che proporre agli spettatori di interagire.
Un’interpretazione che cozza con il suggerimento diretto dagli stessi
ricercatori, poco dopo, agli autori dei programmi TV: considerando che –
sempre a livello globale – solo il 28% degli spettatori considera più
interessanti i programmi TV con cui poter interagire, sarebbe necessario
integrare elementi social già nella fase ideativa del programma. Più interazione o meno interazione, dunque?
Entrambe, probabilmente: ma, ancora una volta, non insieme. Al di là
del fatto che, per condurre un’analisi approfondita, sarebbe necessario
confrontare i dati di Gfk almeno con queli di Nielsen sull’engagement degli
spettatori USA, qualche riflessione ulteriore si può già tentare. La
condivisione dell’esperienza di visione è molto più sfaccettata di
quanto possa apparire a prima vista: si articola in tempi e luoghi
decisamente più ampi della prima serata di fronte al televisore del
salotto, presumibilmente coincidente con lo Smart TV di casa. Ne parlavo
tempo fa con un gruppo di partecipanti a una web discussion,
nella quale abbiamo provato a distendere questa varietà di momenti,
situazioni, modi in cui la TV può essere dilatata: ne è emersa una serie
di combinazioni tanto diverse quanto regolate da precise norme, che non
sempre e non preferenzialmente contemplano un setting come
quello domestico “classico”. In questo contesto, dotati di uno Smart TV,
gli spettatori verosimilmente non chiedono di meglio che esplorare
l’offerta TV in lungo e in largo, disponendosi a scoprire – più che a
condividere l’esperienza di visione. Ma quando si tratta di integrare,
approfondire, diffondere ad altri questa esperienza, devono entrare in
gioco dispositivi diversi, mobili, personali, che le regalano una
flessibilità sconosciuta a qualsivoglia applicazione integrata nel TV
set. Che, per quanto Smart, resta pur sempre una TV.