Era scritto. L”ennesimo scontro parlamentare tra maggioranza e opposizione sulle norme per l’assetto delle frequenze radiotelevisive era nell’ordine delle cose. E non perché Berlusconi abbia vinto le elezioni e sia diventato premier, ma perché tutta la vessata storia del sistema radiotelevisivo italiano racconta di una legislazione del tutto inadeguata: che a volte ha negato l’esistente, ottenendo il solo risultato di far sì che questo si organizzasse in proprio; altre volte ha mostrato l’intenzione di precorrerlo, senza riuscirci; e altre volte, infine, lo ha semplicemente rincorso.
Il caso di Europa7 e di Rete4 ne è un esempio lampante: la prima, assegnataria di una concessione sulla carta, alla quale non corrispondevano frequenze commerciabili, essendo quelle previste già state acquistate a suo tempo dalla seconda, in mancanza di un piano delle frequenze. Non se ne esce: da una parte il diritto di chi ha vinto cause su cause, pur senza passare dal mercato; dall’altra quello di chi ha investito fior di quattrini in un bene che ora – se il mercato è mercato – non può esserle semplicemente espropriato. Del resto, è almeno dall’epoca del monopolio RAI che la classe politica, tutta
tesa a difendere quel monopolio, ha dimostrato di non potere né volere
affrontare seriamente la questione delle frequenze in un’ottica di
mercato, riuscendo solo a far sì che il mercato si organizzasse a
prescindere dai suoi dettami.
Da allora, la figura della legislazione italiana sulla TV è sempre stata la rincorsa – nella forma di proroghe e di modifiche legislative ad hoc -, a prescindere dal colore politico dei governi; proprio come il colore politico non aveva inficiato la sostanziale inadeguatezza dell’atteggiamento politico di fronte alla compravendita delle frequenze, autorizzata non certo dal nuovo emendamento ma da decenni di pratica. L’occasione per porre fine alla rincorsa c’è stata, e si chiamava digitale terrestre: il suo avvento (ben regolamentato) avrebbe offerto la soluzione, liberando frequenze da assegnare, sufficienti alla trasmissione di entrambe le reti.
Ma il DTT, annunciato nel 2006, poi nel 2008, è stato infine ulteriormente spostato dallo scorso governo al 2012. E più in avanti si slitta, più si torna a ricorrere a proroghe e a modifiche legislative, che come tutte le precedenti fanno scontenti a destra e a manca e offrono la facile occasione per gridare allo scandalo. I costi della mancata innovazione, come si vede, non sono solo tecnologici e sociali: sono anche e soprattutto politici ed economici. Chi ha deciso in merito, e oggi maneggia voluttuosamente pietre da lanciare, farebbe bene prima a riflettere sulle sue responsabilità.