Nociva o progressista? La TV non è uguale per tutti

Ho letto oggi l’articolo di Francesco Daveri pubblicato sulla Domenica del Sole 24 ore, dedicato alla televisione: "nociva nei paesi più ricchi", recita l’occhiello, "in India si è rivelata decisiva per migliorare vita e cultura dei cittadini. Aumenta nelle donne la consapevolezza dei propri diritti".
La prima affermazione è riferita a un libro di Robert Putnam, nel quale si sostiene che la televisione sia colpevole, in larga misura, della dilapidazione del capitale sociale (da cui il titolo "Capitale sociale e individualismo", in Italia edito dal Mulino) che Putnam vede negli USA a partire dagli anni Sessanta.

Come ricorda Daveri, la tesi di Putnam difetta di dati a suo sostegno; gli economisti che hanno in seguito tentato di supportare l’argomentazione con evidenze empiriche (come Benjamin Olken di Harvard, autore del paper "Do television and paper destroy social capital?") sono ricorsi a campi di osservazione molto lontani, e radicalmente diversi, da quello cui Putnam faceva riferimento (nel caso di Olken, si tratta dei villaggi indonesiani di Giava). Se questo ha consentito , come correttamente ricorda Daveri, un’osservazione "depurata" da fattori di interferenza come la ricchezza individuale o l’alfabetizzazione, è invece discutibile che produca risultati tout court trasferibili al milieu sociale statunitense.

La prima impressione che derivo dal paper di Olken (la cui attività di ricerca riguarda principalmente gli aspetti microeconomici della corruzione) è quella di una investigazione  guidata da un assunto che sembra mutuato dalle esplorazioni antropologiche dello scorso secolo, sul cui statuto epistemologico è lecito nutrire più di una perplessità. La ricerca di  un terreno "vergine" nel quale mettere in campo l’osservazione scientifica, dopo la filosofia del Novecento, non può che apparire ingenua, o nel peggiore dei casi mostruosa; ma soprattutto, si applica malissimo al caso della televisione.

La modalità di fruizione  del mezzo televisivo (come di qualsiasi altro media) è altamente sensibile alle caratteristiche sociali – oltre che a quelle psicologiche, economiche e culturali – del soggetto che la agisce. Non c’è bisogno di ricorrere agli Audience Studies – metodologicamente, una branca dei Cultural Studies – per addivenire a questa conclusione di buon senso: popolazioni diverse reagiscono in maniera drasticamente diversa all’interazione con la TV. Un approccio che tenti di rispondere al quesito aperto su un contesto sociale complesso ed evoluto come quello statunitense, rivolgendosi a un terreno di studio completamente differente – per quanto potenzialmente favorevole all’osservazione – come quello dei villaggi di Giava, disattende la natura stessa della televisione (e della comunicazione in generale).

La prosecuzione dell’articolo di Daveri conferma le mie perplessità: viene segnalata una seconda ricerca, che si deve a Robert Jensen e Emily Oster (una giovane economista di Chicago davvero in gamba) che mostra i benefici della diffusione della TV via cavo in India, in termini di riflesso sulla consapevolezza dei diritti umani – in particolare per quanto riguarda il pubblico femminile. In questo caso, i ricercatori si guardano bene dallo stabilire connessioni con la situazione nelle altre aree del mondo, o dal generalizzare le loro conclusioni; è del tutto evidente, difatti, che quel che colpisce e risveglia la coscienza delle donne indiane risulterebbe molto meno impattante, se non indifferente, su quella di donne occidentali, e verrebbe accolto forse in maniera ancora diversa dalle donne cinesi.

Le conclusioni di Olken – un esperto di microeconomia, non di comunicazione di massa -, che attribuisce alla TV la corrosione di una serie di legami sociali e istituzionali tra i componenti dei villaggi, sono peraltro discutibili, come mostra acutamente Daveri: il quale evidenzia come dalla sua ricerca traspare che il capitale sociale effettivo non sia realmente stato intaccato dalla diffusione della televisione. A maggior ragione, riportare un simile esito al quesito lasciato aperto dal libro di Putnam, come Olken intende in ottima fede fare, non  sembra possibile; e per quanto sia giornalisticamente efficace riassumere questo tentativo definendo la TV "nociva nei paesi più ricchi", è il testo stesso dell’articolo a smentire la definizione, che alla verifica dei fatti rischia di risultare inesatta, ed è sicuramente parziale.

  • 1mark13 |

    *conclusioni

  • 1mark13 |

    Io vedo una analisi in terreno vergine come metodo per capire quali fattori, in terreno “coltivato” (U.S.A., Italia), abbiano più peso, e non per generalizzare al terreno vergine delle conclusione. L’oggetto di studio dovrebbe rimanere l’Occidente. In questo è giusto bacchettare Olken. Trovi?
    “Davvero il capitale economico è altra cosa rispetto a quello culturale?”
    Secondo me sì, e anche di tanto.
    Ciao,
    Marco

  • Paola Liberace |

    Marco: Davvero il capitale economico è altra cosa rispetto a quello culturale? So che detta così sembra sociologismo spinto, ma l’alternativa mi sa davvero troppo di materialismo storico.
    Per quanto riguarda la tua diagnosi, non concordo del tutto, ma la cosa più importante mi sembra che essa tradisce la stessa mancanza della tesi di Putnam: vale a dire, evidenze che possano corroborarla. Come sappiamo che i segnali che rintracciamo non conducono necessariamente a un rapporto causa-effetto discendente, ad esempio, dalla stampa invece che dalla TV?
    Paola

  • 1mark13 |

    Sono sostanzialmente d’accordo sul fatto che la televisione non intacchi il capitale sociale. Il capitale sociale va di pari passo con quello economico più che con quello culturale. Sei d’accordo?
    Sul fatto che grandi mezzi di comunicazione di massa portino consapevolezza di diritti e migliore capacità di discernimento è evidente. Basta ricordare un libro di Robert Darnton in cui si afferma che i romanzi proibiti nel Settecento in Francia hanno potuto preparare le menti a criticare i re e quindi alla Rivoluzione.
    La televisione può essere nociva nei paesi più ricchi (e quindi da più tempo svincolati dalla monarchia, da più tempo abituati a criticare i potenti) perché non apporta più un quid di coscienza che garantisce consapevolezza di legittimità a una critica dei potenti ma perché può portare al disprezzo di tutta la classe politica, traducibile in sensazione di fissità dello spazio sociale e pessimismo sulle reali possibilità di cambiamento.
    Laddove, in India, pone le basi per il cambiamento, in Italia/U.S.A. pone le basi per il non cambiamento. Anche perché in occidente i potentati economici, rifusi col potere politico hanno stemperato la cifra progressista iniziale del nuovo mezzo. Cosa che potrebbe accadere (e sta accadendo in parte) anche per la Rete.

  • Paola |

    @Salvatore: sono del tutto d’accordo. E’ per questo che la posizione dei detrattori della TV mi sembra oggi obsoleta, quasi geologica: la televisione è già tante televisioni, proprio come il progenitore di una specie che si è differenziata dando origine a numerose altre. Ostinarsi a dare ancora la caccia al vorace progenitore significa rischiare di essere sorpresi alle spalle da uno dei suoi discendenti, magari dotato di canini ancora più aguzzi.
    @Zauberei: sicumera, ogni secolo e ogni cultura ha la sua. Davvero siamo pronti a rinunciare a queste categorie? Se è solo per sostituirle con altre centrate altrove, o per rispolverarne di più antiche, non sono certa che ne valga la pena.
    p.

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