Non solo pubblicità: per la TV pubblica ci vuole il capitale privato

Non mi unirò al coro degli entusiasti che da noi hanno salutato con grida di giubilo la proposta di Nicolas Sarkozy, di eliminare la pubblicità dalle emittenti televisive pubbliche finanziandole con una tassa su quelle private. Non lo farò per due ragioni: la prima è che ai suddetti entusiasti italici è forse sfuggito l’ulteriore, piccolo dettaglio che il presidente francese intende tassare, oltre alle televisioni commerciali, anche il fatturato dei nuovi mezzi di comunicazione, vale a dire Internet e la telefonia mobile, che si troverebbero così a sostenere un balzello del tutto immotivato. I nuovi media che sostengono i vecchi rappresentano una situazione paragonabile a quella per cui i giovani italiani appena entrati nel mercato lavorativo sono condannati a pagare per decenni il mantenimento di quelli, sedicenti anziani, che lo hanno appena lasciato, in un’età in cui i loro figli potranno solo sognare l’agognato riposo.
La seconda ragione per cui la proposta di Sarkozy mi sembra impraticabile è che introduce una pesantissima turbativa in un mercato dalle regole e dagli equilibri delicati, provocando un danno maggiore con il rimedio rispetto a quello causato dal male. Se davvero si ritiene opportuno e necessario che il servizio radiotelevisivo pubblico abbandoni del tutto la forma di finanziamento legato agli investimenti pubblicitari, si dovrebbe avere il coraggio anzitutto di ridimensionarne le pretese (e le prebende), ammettendo ad esempio che tre emittenti terrestri (spesso in sovrapposizione tra di loro e con la concorrenza) e innumerevoli satellitari sono decisamente troppe per i mezzi disponibili (anche se spesso troppo poche per le promesse di chi  – tra i politici, ovviamente – ha utilizzato l’azienda radiotelevisiva di stato come moneta corrente per ripagare i propri debiti d’onore, attraverso posti di lavoro, consulenze, iniziative difficili da motivare con chiarezza e plausibilità).
Continuo a pensare che, se lo Stato – come pare – non è in grado di provvedere da solo alle esigenze economiche del broadcasting pubblico nulla sarebbe meglio che affidare il suo mantenimento (non il suo indirizzo) a un capitale privato in grado di sostenerlo. In altre parole, per salvare la televisione di Stato non è necessario gettare via il bambino con l’acqua sporca e, rinunciando alla pubblicità, bandire ogni forma di contributo privato: tanto la creazione di una fondazione, quanto la privatizzazione della RAI, con il vincolo di rispettare un contratto di servizio, dimostrerebbero come "pubblico" e "statale" non coincidono, e come l’intervento dei privati – fuori dalle forme "selvagge" che sembrano oggi caratterizzare l’invasione dell’etere da parte degli inserzionisti – sia auspicabile e (al contrario della soluzione sarkozista) tutt’altro che dannoso, sia per le emittenti pubbliche che per quelle private, che per gli ultimi arrivati nel campo mediatico.

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  • Paola Liberace |

    Siamo dello stesso avviso. Mi sembra completamente fuori dal mondo l’idea di appoggiare un provvedimento così antistorico, tanto più perché proviene da un’area politica che almeno nominalmente con il suo ideatore dovrebbe non avere niente a che fare. Che sia la sindrome Bruni?
    p.

  • Idepicc |

    La proposta del Presidente francese sa solo di demagogia. A mio avviso è poi il concetto stesso di televisione pubblica ovvero di servizio pubblico radiotelevisivo ad essere oggi, se non obsoleto, forse difficile da definire e/o spiegare (se non forse con funzioni sussidiarie). Le imposte sulla pubblicità hanno antica tradizione, come ahimè le politiche dei sussidi ai media (stampa in particolare), e alterano sicuramente la competizione. Ritengo che la Rai dovrebbe essere privatizzata, come azienda, magari scorporandone prima una parte al quale affidare il compito di realizzare un “servizio pubblico” sulla scorta del PBS statunitense. Ai privati, titolari di licenze (credo che ora si chiamino così) eventualmente degli obblighi affinchè inseriscano nei palinsesti qualche attività di informazione/programmazione tipica degli antichi “servizi pubblici”, naturalmente senza eccedere: in luogo delle tasse sulla pubblicità “oneri di programmazione” per servizi di pubblica utilità.

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