Pubblicà o pubblic(it)à? Una pianta chiamata TV

Più acqua, meno acqua, cos’è che vuoi? E’ la citazione che mi viene (indegnamente, s’intende) in mente spontanea a sentire la ridda di recriminazioni scagliate in Francia contro il Rapporto sulla riforma della TV pubblica, voluta da Sarkozy. Cerco di spiegarmi meglio.

I punti fondamentali della riforma, già largamente annunciata sin dall’inizio dell’anno, sono due: la scomparsa della pubblicità da France Televisions – a partire dalle otto di sera, dal primo gennaio 2009 – e il passaggio della nomina del presidente della stessa TV dalle mani del Consiglio superiore dell’audiovisivo a quelle del governo. Cominciamo dal secondo elemento, apparentemente il più opinabile: quello che ha fatto scattare tra i detrattori più agguerriti di Sarkozy (nonché di Berlusconi) i paragoni – del tutto indebiti, a ben vedere, tra il presidente della Repubblica francese e quello del Consiglio italiano.
Il controllo sulla televisione pubblica da parte del governo è una vexata quaestio anche dalle nostre parti (vedi polemiche sulla competenza del Ministero del Tesoro sulla nomina di uno dei consiglieri di amministrazione della RAI, e il conseguente caso Padoa Schioppa-Petroni). Il dilemma è sempre lo stesso: è il potere esecutivo a dover intervenire direttamente nell’azienda radiotelevisiva statale, o non piuttosto quello legislativo, attraverso il Parlamento o i suoi organi delegati? Ma se il primo è espressione di una volontà popolare maggioritaria, dov’è lo scandalo? Al di là di ciò, si tratta di una polemica che mi appassiona poco.
Sarò forse banale, ma il vero dilemma continua a sembrarmi se abbia o meno senso che a dirigere un’azienda televisiva siano le istituzioni: o per meglio dire, se abbia un senso parlare di una TV pubblica. Date  le barocche volute in cui vedo avvilupparsi il dibattito anche oltralpe, mi faccio sempre più persuasa – come direbbe Montalbano – che si cerchi di dare questo senso a ciò che un senso non ce l’ha (e così anche Vasco è sistemato).

E torniamo al primo punto della riforma. Quando all’inizio di quest’anno balenarono i primi tratti della proposta di eliminare la pubblicità dalla televisione di Stato francese, fu un coro di reazioni entusiaste: dalle quali rivendico con orgoglio di essermi da subito distinta (leggere qui per credere). Il problema, ancora una volta, non mi è mai sembrato se la TV pubblica debba o meno trasmettere pubblicità, sostentandosi con i suoi proventi al pari di quella commerciale; ma più radicalmente, se abbia senso che esista una TV pubblica.
Per rimanere alla questione, già da gennaio era apparso chiaro che l’eliminazione degli spot si sarebbe dovuta basare su provvedimenti più che discutibili, come la tassazione dei proventi dei nuovi media: che si sarebbero così trovati a pagare il fio della sopravvivenza di un media, ormai lo si può dire, vecchio.

A chi salutò con grida di giubilo le idee sarkoziste non sfuggì che il grosso dei ricavi da recuperare sarebbero provenuti da una tassazione più pesante sulle televisioni private, il che fece felici molti antimercatisti dell’etere, anche dalle nostre parti: ma gli stessi non fecero i conti, almeno non immediatamente, con il fatto che gli investimenti pubblicitari dirottati da France Televisions si sarebbero necessariamente diretti sulle stesse TV private, aumentando il loro fatturato. Questa scoperta sembra esser stata fatta solo ora, così come solo adesso sembra spuntare il legame di amicizia tra il presidente francese e l’azionista di riferimento di TF1, Martin Bouygues, letto subito come la ragione dello scandaloso vantaggio concesso alle emittenti commerciali.
C’entrano davvero le due cose? Non è questa una lettura semplicistica – che non a caso prende di mira anche Berlusconi, tanto assomiglia a quelle che si affollano sui nostri organi di stampa contro i suoi interessi personali -? E perché, se da un lato pochi mesi fa si è applaudito Sarkozy per aver inteso distinguere le fonti e il funzionamento della televisione pubblica da quella privata, dall’altro lo si crocifigge oggi per quella che appare piuttosto una conseguenza (nemmeno così scontata) dell’improovvisa dispinibilità di ingenti risorse da investire nella pianificazione pubblicitaria? E’ qui che ho pensato a Moretti: alla sua pianta che langue, langue con più luce, con meno luce, con più acqua, con meno acqua, e non si capisce infine cosa voglia per crescere e prosperare. E se infine provassimo, noi, i francesi, chiunque si sente intitolato a occuparsene, a piantarla, e lasciarla semplicemente in pace, questa pianta chiamata TV?