C’è sempre uno più OTT di te…

L’annuncio di Disney, che porrà fine nel 2019 all’accordo con Netflix di distribuzione delle nuove uscite cinematografiche (ma solo negli Stati Uniti: nulla cambia in Sudamerica e Spagna), per lanciare un proprio servizio di streaming video on demand, mi ha richiamato alla mente l’aforisma di Pietro Nenni sulla gara tra puri, e sul più puro che ti epura. Un detto che può ben essere adattato alla gara in corso ormai da tempo tra gli attori del mercato video, e più in generale della distribuzione di contenuti multimediali, apparentemente già vinta dai player della over-the-top-TV come Netflix.

La storia è ormai nota: YouTube prima, e Netflix poi, rappresentano i due principali modelli di un’ascesa dirompente, che nell’ultimo decennio (abbondante) ha messo in discussione la tradizionale catena del valore della cinematografia e della televisione. Gli attori della OTT TV da un lato hanno approfittato delle capacità trasmissive sempre più robusta delle reti di telecomunicazione per proporsi come plausibile alternativa di intrattenimento video alla “vecchia” TV, dall’altro hanno scavalcato le stesse telco, che sulle proprie reti facevano leva per erogare servizi di IPTV e quindi accreditarsi come media companies a tutti gli effetti. Le OTT TV hanno spezzato il dogma del vincolo tra servizio e rete, costringendo non solo le telco, ma anche i cable providers alla rincorsa, con il lancio di propri servizi over-the-top video in streaming on demand.

Prima della trasmissione, e della distribuzione, tuttavia, c’è la produzione, l’inesorabile componente editoriale. Non basta sviluppare una piattaforma video agile, efficiente e con un’interfaccia intuitiva e semplice da utilizzare (tramite la quale raccogliere massivamente i dati degli utenti); non basta neppure mettere in atto un’efficace strategia di diffusione continentale e poi globale; non basta realizzare un marketing che schiva il tradizionale advertising per fare affidamento sull’affezione e sulla soddisfazione degli utenti – e sulla buona fama così guadagnata – e soprattutto sulla profilazione e sulla personalizzazione spinta. Nulla di questo basta, se non c’è il contenuto, che, si sa, è il re. Per YouTube, campione di un modello di business basato sull’advertising, il problema di cosa distribuire sembrava risolto alla radice (la risposta pareva essere nel suo stesso nome: you, appunto, che insieme al claim “broadcast yourself” doveva chiarire cosa alimentasse il servizio di videostreaming): fino a quando non è apparso chiaro che, invece che con se stessi, gli utenti alimentavano la piattaforma soprattutto con mashup di contenuti dei “vecchi” media, o addirittura con intere trasmissioni TV e prodotti cinematografici tradizionali (come ha dolorosamente notato Jaron Lanier), e che sarebbe stato necessario scendere a patti con l’industria editoriale – musicale o cinetelevisiva che sia.

Al contrario, questi patti sono stati stipulati fin da subito da Netflix, rappresentante del modello di business a pagamento in subscription – salvo poi constatare che potevano bastare forse per sopravvivere, non per prosperare senza sottostare ai diktat delle major. Di qui l’arretramento della società di Reed Hastings sulla catena del valore, con l’ingresso nel business delle produzioni, imitato poi dai followers del settore (tra i quali Amazon). Da ultimo, l’ingaggio di David Letterman, che condurrà per Netflix uno show pilota (sei puntate da un’ora), segna il tentativo della piattaforma di sfidare la TV tradizionale anche sull’ultimo terreno che le è rimasto più proprio: quello del live (trattandosi in realtà di una registrazione, sarà interessante verificare quale accoglienza le verrà riservata).

Ma se il contenuto è re, per chi detiene i diritti editoriali basta (re)inventarsi distributori per riguadagnare posizioni. Le stesse majors – così come i broadcasters – hanno deciso di combattere le OTT TV sul loro stesso terreno, rivolgendosi direttamente agli spettatori. Di qui, ad esempio, la nascita di Hulu,  joint venture nella quale, oltre a NBC e a Fox, figura la stessa Disney. Finora, tuttavia, il gigante di Burbank si era tenuto in secondo piano, non disdegnando accordi commerciali ad ampio spettro, anche con il nemico; ma l’acquisizione del 75% di BAMTech – società di videostreaming che fa capo alla Major League Baseball – e l’annuncio del lancio di due servizi SVOD proprietari – uno dedicato allo sport, con il brand ESPN, e uno ai film e all’intrattenimento Disney (compresi i brand Marvel e Pixar), segna un cambio di passo nelle strategie di una delle industrie editoriali più vaste del mondo. La strategia sul fronte sportivo è particolarmente significativa nell’ottica della competizione con la TV tradizionale degli eventi live, di cui abbiamo già parlato: se alcuni campionati continueranno ad essere trasmessi nei bouquet degli operatori via cavo, l’accordo di BAMTech per gli eSports di “League of Legend” assicura a Disney una freccia esclusiva e innovativa al suo arco. Questo non significa quindi che i contenuti e le produzioni di cui la Mouse House detiene i diritti non saranno più visibili altrove, ma solo che d’ora in avanti potrebbero in ogni momento traslocare, se le condizioni negoziali non soddisfacessero più la casa madre.

Se le telco possono essere disintermediate e ridotte all’irrilevanza, insomma, non c’è ragione per cui non possano esserlo anche i players OTT, ultimi arrivati al tavolo, il cui contributo sulla suddetta catena del valore è tutto sommato meno difficilmente replicabile di quanto siano quelli della produzione editoriale e della trasmissione. Questo sembra insegnare la mossa di Disney: nella prospettiva dell’over-the-top, ci sarà sempre un over-the-top più over-the-top di te che ti over-the-toppa. Fuori di metafora, se il “top” da scavalcare si era finora identificato con le reti, nulla vieta di forzare la mano, industrialmente e commercialmente, affinché inglobi anche le piattaforme di servizio; e se questo modello si affermasse, da domani vedremmo gli editori – i più grandi, i più forti, i più versatili – destinati a rimanere da soli, sulla vetta del monte che hanno scalato, soli davanti allo spettatore.