Curare è meglio che prevenire

Quello che segue è il mio speech al TEDxCremona dell’11 settembre 2021.

Prevenire è meglio che curare. Lo sappiamo tutti: c’era persino uno spot che recitava così, qualche tempo fa. E aveva perfettamente ragione – non solo in tema di igiene dentale, ma più in generale per quanto riguarda la salute: e direi che ce ne siamo accorti in questo anno e mezzo. Pre-venire cosa significa? Significa arrivare prima: prima che accada il peggio, prima che si verifichino danni, prima che sia troppo tardi. Quindi fare prevenzione significa agire considerando i possibili rischi legati a una situazione, per fare in modo che non diventino problemi attuali. La diffusione di una malattia; l’adozione di un comportamento nocivo; un’alimentazione o un’igiene poco accurate… tutti elementi su cui intervenire preventivamente. Guardare al futuro per renderlo migliore, agendo nel presente sui problemi che potrebbero sorgere: questo significa prevenire, no? Ed è meglio che curare, ovvero intervenire solo quando il problema è già esploso.

Ma è sempre così? Voglio dire: è così anche quando non si tratta di salute? Prendiamo il mio lavoro: io mi occupo di formazione, quindi accompagno le persone a imparare. Ecco, noi siamo abituati a pensare che imparare sia un modo per prepararci; alle interrogazioni, alle verifiche, agli esami, dalla scuola all’università, e anche dopo, prepararci a fare un lavoro, con master e poi corsi di formazione. Pensando a tutto questo, imparare sembra qualcosa di molto simile a prevenire – in entrambi i casi si tratta di prepararsi: guardare al futuro, considerare le possibilità, e  affrontarle. In questo caso non lo facciamo con l’igiene, l’alimentazione, l’allenamento, o con i vaccini, ma con l’apprendimento. C’è una cosa che mi colpisce in effetti, mi sembra che esista una la somiglianza tra il processo di apprendimento e quello di immunizzazione, che hanno entrambi lo stesso andamento “a U”. Quando ci vacciniamo, ci facciamo inoculare una piccolissima quantità del germe patogeno, attenuata, per scatenare la risposta immunitaria, quindi in un certo senso ci ammaliamo un po’; e chi si occupa di dinamiche cognitive ha osservato che nell’apprendimento – specialmente in certe forme di apprendimento, come quello linguistico – si passa da una fase iniziale in cui impariamo qualcosa a una in cui apparentemente ci dimentichiamo tutto, per poi infine tornare a consolidare quello che abbiamo imparato. I ricercatori  chiamano questo fenomeno u-shaped learning, ed è un meccanismo ben noto, che addirittura sembrerebbe indispensabile in alcuni casi: tipicamente, quelli in cui si tratta di acquisire un set articolato di regole, che poi vanno adattate a un contesto complesso attraverso un processo di tentativi ed errori.

Ma a parte la ricerca, cosa ci dice l’esperienza? Cos’è accaduto quando abbiamo iniziato a imparare? Iniziando la scuola, abbiamo incontrato persone. Una, in particolare: un maestro o una maestra: ci ricordiamo tutti, no? Quello che ci assegnata i compiti, che ci interrogava, che ci spiegava la lezione… ma prima di tutto questo, questa persona ha iniziato con il rivolgersi a noi, a tutti, e a ciascuno. Prima ancora di trasmetterci nozioni, conoscenze o indicazioni su come comportarci, ha iniziato ad occuparsi di noi.  Se ci pensate, la stessa cosa avviene anche tra medico e paziente: c’è una relazione, un rapporto che è la premessa dell’anamnesi, della diagnosi, della prescrizione e della guarigione. Quando si parla di cura, però, di solito in quest’ambito si intende una terapia medicale. E quando iniziamo un percorso terapeutico è perché nel nostro organismo si è rotto un equilibrio, e questa rottura ha cominciato a generare conseguenze indesiderate, negative. Il percorso di cura, nel senso della terapia sanitaria – che passi attraverso la somministrazione di farmaci, la chirurgia, l’esercizio fisico o in qualche caso l’utilizzo di dispositivi esterni – mira a riconquistare questo equilibrio, o quanto meno a generarne uno nuovo, che sia accettabile (va anche detto che non sempre ce la fa).  Ecco allora l’importanza di fare in modo anzitutto che l’equilibrio non si rompa, o che venga almeno turbato il meno possibile; ecco perché la prevenzione, che considera i possibili fattori di rischio e corre anticipatamente ai ripari, viene necessariamente prima della cura. Anzi, mira a evitarla, facendo in modo che non sia necessaria.

E quando iniziamo un percorso formativo, invece, cosa accade? Proviamo a fare un paragone, magari azzardato – anche nella formazione esistano dei “malati”: soggetti che necessitano di una cura, una terapia per sanare una ferita, per colmare un divario, per recuperare uno squilibrio tra le competenze attese – quelle degli standard di verifica, quelle dei requisiti d’esame, o quelle del mercato del lavoro, in cui sono o in cui si preparano ad entrare – e quelle effettivamente in possesso delle persone. e ne parla soprattutto in ambito lavorativo, per esempio a proposito di competenze digitali: si lamenta uno “skill mismatch”, una mancata corrispondenza tra le competenze avanzate che servirebbero sul mercato del lavoro, trasformato dall’innovazione tecnologica, e quelle che sono effettivamente in possesso delle risorse disponibili, che invece scarseggiano. E allora quello che facciamo, o che pensiamo sia giusto fare, è curare: ossia, rimediare a una inadeguatezza, correndo ai ripari con progetti formativi specializzati – in gergo si chiamano reskilling, quelli per riconvertire i lavoratori, specialmente quelli la cui mansione è stata resa obsoleta dalle nuove tecnologie, a nuove mansioni, e upskilling quelli che invece mirano all’aggiornamento della stessa mansione, per esempio con l’introduzione a metodi e strumenti nuovi. Sempre più diventa chiaro che bisogna affrontare questa situazione sin dall’inizio, sin dai primi anni dell’istruzione obbligatoria: sapete, esistono paesi in cui già a quest’epoca gli studenti vengono istradati in modo che le competenze che acquisiscono corrispondano esattamente a quelle richieste dalle professioni cui saranno destinati, più o meno in base alle loro attitudini. Una sorta di “prevenzione”, quindi: interveniamo prima che sia troppo tardi, per evitare la “malattia” e mantenere le persone “sane” – ovvero portatrici di un equilibrio tra risultati e attese.

Torniamo ancora una volta alla nostra domanda: ma allora anche nella formazione prevenire è meglio che curare? Dipende. Se curare significa porre rimedio, magari tardivo, a un’inadeguatezza, probabilmente sì. Eppure, esiste un altro senso di “cura”. Un grande filosofo l’ha definita la disposizione fondamentale dell’esserci, ovvero dell’essere umano nel suo abitare il mondo. Questa disposizione è la premessa della possibilità di rivolgersi all’altro, di occuparsi di lui, di stabilire con lui una relazione. Ma anche qui, invece di fare della filosofia, pensiamo a quei due, al maestro e all’allievo. Maestro e allievo si guardano l’un l’altro: ciascuno di loro ha davanti la presenza dell’altro, con tutta la sua realtà, la sua perfezione e imperfezione. Che non sono sinonimo di malattia, di carenza, di squilibrio o di divario: ma di identità. Ecco, chi partecipa a un’esperienza formativa, che sia da formatore o da discente, è coinvolto come persona, così com’è, prima ancora che come dovrebbe essere. Ed è così che chi fa formazione stabilisce una connessione, che è la condizione di qualsiasi percorso formativo.

Parlavamo di prepararci: prepararsi implica guardare in avanti, al futuro. E questo è certamente vero quando si fa formazione: si guarda alle potenzialità, alle aspirazioni, alle ambizioni. Come abbiamo visto, si guarda anche alle mancanze, alle lacune, alle opportunità di miglioramento. Ma gli stessi occhi rivolti al futuro devono allo stesso tempo essere saldamente radicati nel presente. Non è solo questione di spazio, ma anche di tempo: le persone sono qui e ora, e per accompagnarle a imparare bisogna essere lì con loro, per loro. Se non fosse così, e quando non è così, l’accompagnamento si trasforma in una specie di trascinamento. Chi di voi ha figli? Diciamo bambini tra i 5 e i 10 anni? Magari vi è capitato qualche volta di dover andare di fretta, per esempio a prendere un autobus, o a un appuntamento, mentre il vostro bambino era coinvolto in un gioco, oppure fermo a osservare una vetrina… se fosse stato più piccolo lo avreste preso in braccio (se fosse più grande semplicemente non lo prendereste più!), ma a quell’età tipicamente lo afferrate frettolosamente per la mano perché bisogna andare di corsa. Pensate un attimo a cosa accade in quel momento: il vostro, il nostro sguardo è rivolto in avanti; non si volta, non si sofferma all’indietro, mentre strattoniamo il bambino. Questa è l’immagine che mi viene in mente quando penso a un certo modo di fare formazione, concentrato sull’obiettivo da raggiungere, sul problema da affrontare, sul rischio da evitare – e giustamente, se l’unica alternativa è la cura, come terapia dell’inadeguatezza. Un modo che vuole quindi mettere al sicuro conoscenze e competenze, prima – o invece – di mettere al centro la persona, che ne è la portatrice. Un modo preventivo, appunto, di fare formazione.

Proviamo allora a rovesciare il paradigma: proviamo a partire dalla cura, come atteggiamento fondamentale dell’uomo, come capacità di rivolgersi agli altri e occuparsi di loro, come coltivazione dell’umano. Se abbiamo ben presente lo scopo più importante da raggiungere, tutti gli altri derivano da questo. E lo scopo più importante da raggiungere è lì, davanti ai nostri occhi: imparando, ci prepariamo… a diventare noi stessi. E se ce la facciamo, poi potremo anche superare prove o raggiungere obiettivi, come è importante e necessario fare. Ma io credo che prepararsi non voglia dire soltanto, o soprattutto, sforzarsi di recuperare uno squilibrio, un’inadeguatezza, un’insufficienza strutturale: se partiamo da queste, non potremo mai fare altro che tentare di riparare, invece di costruire. Ecco perché io penso che nella formazione curare sia più importante che prevenire. Avere cura di qualcuno significa connettersi con lui in profondità; significa condividere la fiducia nelle sue capacità, nella possibilità di esprimere i suoi desideri, di affrontare le sue paure; e farlo con i suoi tempi, rispettando le sue peculiarità, con l’attenzione costante al suo modo di essere. Io credo che solo coltivando la nostra umanità presente possiamo prepararci davvero a quella futura: perché un essere umano che impara non sta soltanto, né soprattutto, gestendo un rischio – preparandosi ad affrontare problemi, a superare prove, a schivare difficoltà. Un essere umano che impara, in qualsiasi momento, a qualsiasi età, in qualsiasi situazione, sta crescendo. Questo significa che sta diventando se stesso: e in questo va accompagnato, con cura.