Più che il contenuto potrà il brand?

Come hanno notato gli studiosi meno inclini a lasciarsi impressionare dalla retorica del nuovo, il panorama globale dei contenuti audiovisivi – nonostante la nascita di nuovi canali di distribuzione – è sembrato finora limitarsi a offrire "more of the same". Più che nuove tipologie di contenuti, insomma, nuovi modi di veicolare contenuti già esistenti, invariati nella sostanza, e in gran parte riconducibili sempre al medesimo mainstream. Ma da qualche tempo qualcosa si muove: non tanto grazie alle innovazioni tecnologiche, ma piuttosto grazie alla prepotente occupazione della scena da parte dei brand.

In occasione del MIPTV (a Cannes dall'1 al 4 aprile prossimi), appuntamento stagionale imperdibile per gli operatori dell'industria audiovisiva, due intere sessioni saranno dedicate al branded entertainment: quello che si segnalava come un'interessante esperimento è diventato ormai una delle colonne portanti del mondo televisivo e neotelevisivo. Non solo nella forma dell'advertising-narrazione, costruito intorno a marchi commerciali sempre più integrati con il mondo della comunicazione; né soltanto in quella legata ai marchi delle emittenti, sempre più orientati ad acquisire fisionomie  distintive sul mercato dei canali  – come spiega un libro pubblicato di recente ad opera di Alberto Mattiacci e Alessandro Militi -. Brand è anche e soprattutto quello delle trasmissioni-icona in grado di assicurare quell'engagement che nei sogni degli inserzionisti pubblicitari sta gradualmente sostituendo lo share.

Dall'invasione dei brand è lecito attendersi nuova linfa a un mercato che negli ultimi anni ha subito la battuta d'arresto degli investimenti pubblicitari: secondo le stime diffuse in un recente dibattito all'università Cattolica di Milano (pari a un valore di 65 miliardi di dollari nel 2011), i numeri del settore si avviano a rappresentare una percentuale importante dell'intero comparto degli investimenti in advertising. Ma è lecito sperare che da questo versante arrivi anche una scossa decisiva sul terreno più propriamente editoriale, con la creazione e la diffusione di formati finalmente innovativi non solo quanto a tipologia e numero di piattaforme di diffusione, ma anche e soprattutto quanto a strutture referenziali e narrative.

In uno dei suoi ultimi articoli sul Corriere della Sera,  Aldo Grasso ha lamentato che la "nuova TV" (rappresentata dai talk-show di recente esordio sulle principali reti generaliste) sia già vecchia. Ma per svecchiarla non è sufficiente rifarle il trucco, magari sovrapponendo al dibattito in studio qualche puntuto tweet: occorre ripensare il modo stesso di parlare, di raccontare, di argomentare, in una parola il linguaggio televisivo. E se non ce la fa da solo il contenuto, speriamo almeno che ce la facciano i brand.